A cura della Dott.ssa Francesca Reale
INDICE
Capitolo 1 - REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA
1. Premessa
2. La comunione legale
3. La separazione dei beni
4. Le convenzioni matrimoniali
Capitolo 2 - IL FONDO PATRIMONIALE
1. Premessa
2. Nozione e natura giuridica del fondo patrimoniale
2.1. Funzione del fondo patrimoniale
3. Oggetto e costituzione del Fondo Patrimoniale
3.1. Modalità di costituzione del Fondo patrimoniale
3.2. Pubblicità del fondo patrimoniale 4. La gestione del fondo patrimoniale
4.1. Atti di ordinaria amministrazione e Atti di straordinaria amministrazione
4.2. La Responsabilità nell’amministrazione del fondo
4.3. I frutti
5. Il fondo patrimoniale e la tutela dei creditori: il concetto di “bisogni familiari” e le obbligazioni garantite del fondo
5.1. L’esecuzione sui beni del fondo
5.2. L’ipoteca sui beni del fondo
5.3. Le azioni a difesa dei creditori: Azione revocatoria, Azione di simulazione, Actio nullitatis
5.4 Azione Revocatoria Fallimentare
5.4.1 L’opponibilità al Fallimento
5.4.2 Segue. Azione di inefficacia ex art. 64 L.F. e Revocatoria fallimentare ex art. 67 L.F.
Capitolo 3 – ESTINZIONE DEL FONDO PATRIMONIALE
1. Premessa
2. Le cause di cessazione del fondo patrimoniale
2.1. L’Annullamento del matrimonio
2.2. Lo scioglimento del matrimonio
2.3. Lo scioglimento volontario del Fondo patrimoniale
2.3.1 Lo scioglimento volontario in presenza dei figli minori
3. Gli effetti dell’estinzione
3.1 La presenza di figli minori: eventuale intervento del giudice ed eventuale attribuzione ai figli di una quota dei beni
4. La pubblicità dell’estinzione del fondo
Capitolo 4 – ISTITUTI COMPLEMENTARI AL FONDO PATRIMONIALE
1. Premessa
2. Istituti complementari : fondo patrimoniale e atto di destinazione allo scopo
2.1. Segue : Fondo patrimoniale e Trust Conclusioni
INTRODUZIONE
Introduzione La famiglia è la principale formazione sociale in cui l’uomo realizza la propria personalità, che si estrinseca nell’unione coniugale, nella procreazione, nella crescita dei figli, i quali saranno poi a loro volta promotori del ciclo naturale della vita di nuove famiglie.
Con il passaggio da una società a base prevalentemente agricola ad una società industriale, la famiglia non adempiva più alla funzione di centro primario dell’economia, né di centro primario della vita politica.
Infatti nel dopoguerra si assistette al passaggio da una famiglia patriarcale a prevalente economia agricola, ad un tipo di famiglia ridotta, ove il nucleo familiare è composto solo dai coniugi e dai figli conviventi e la cui funzione si restringe a quella di perseguire la mutua assistenza e l’educazione della prole convivente.
Si rese pertanto necessario un radicale intervento legislativo, che tenesse conto delle tendenze in atto e della forte spinta di emancipazione della donna, fino ad allora costretta ad un ruolo determinante ma assai poco tenuto in considerazione sotto il profilo patrimoniale.
La riforma del 1975 ha operato un adeguamento ai nuovi principi costituzionali sopravvenuti e ai nuovi rapporti che si erano venuti a creare tra tale comunità e la società in generale.
L’intervento dello Stato trova dunque la sua giustificazione nel riconoscimento della famiglia come società naturale dove si forma e si svolge la personalità dell’individuo.
Con tale riforma viene scolpita una nuova visione della famiglia in cui i coniugi hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, e contribuiscono entrambi, in uguale misura, al suo benessere e alla crescita dei figli.
Alla base dell’odierno regime si rinviene, una stretta connessione tra il principio di uguaglianza, che la Costituzione specifica nell’art.29, e il principio di solidarietà in virtù del quale effettivo riconoscimento deve essere dato alla collaborazione prestata da ciascun coniuge nello svolgimento della vita comune, a prescindere dalla circostanza che il coniuge sia percettore di un reddito da lavoro.
Con la modifica del diritto di famiglia trova ingresso un istituto nuovo, il fondo patrimoniale che presenta particolari affinità con il vecchio patrimonio familiare.
Ciò che risulta profondamente mutato è il modo in cui il regime del fondo patrimoniale si inserisce all’interno di una nuova disciplina dei rapporti familiari.
Tale istituto pone marito e moglie in una posizione di sostanziale parità che si manifesta nell’attribuzione ad entrambi i coniugi della proprietà dei beni, salvo patto contrario, ed in ogni caso nel godimento comune e nell’amministrazione congiunta.
Nell’attuale ordinamento legislativo, a seguito della soppressione dell’istituto dotale, il fondo patrimoniale è apparso per lungo tempo come l’unica convenzione coniugale idonea a vincolare determinati beni all’assolvimento di uno scopo nell’interesse della famiglia ed a garantire un’effettiva difesa del patrimonio familiare.
Tuttavia, l’evoluzione normativa ha permesso di individuare anche altre soluzioni finalizzate a tale scopo, alcune rinvenibili nello stesso Codice civile, come l’atto di destinazione di cui all’art. 2645 ter c.c., altre provenienti da esperienze giuridiche di altri Paesi, come l’istituto del trust.
Tali istituti, benché non perfettamente equivalenti, hanno come comune denominatore la creazione di una separazione patrimoniale, nonché di una specifica destinazione dei frutti prodotti dai beni interessati.
Come risulta dalla formulazione dell'art. 167 c.c., il fondo patrimoniale consiste nell’imposizione convenzionale, da parte di uno dei coniugi, di entrambi o di un terzo, di un vincolo in forza del quale determinati beni, immobili o mobili iscritti in pubblici registri, o titoli di credito, sono destinati a far fronte ai bisogni della famiglia.
Il legislatore, inoltre, allo scopo di tutelare la consistenza di un patrimonio espressamente destinato alle esigenze del nucleo familiare, ha previsto una particolare disciplina per l’amministrazione del fondo medesimo, nonché stringenti limiti all’alienazione discrezionale dei beni ed all’espropriabilità degli stessi da parte dei creditori.
Tale istituto, infatti, consente di porre i beni che ne costituiscono oggetto al di fuori dei rischi discendenti da una gestione non oculata delle vicende patrimoniali da parte dei coniugi e permette, altresì, di agevolare questi ultimi nella possibilità di ricevere credito presso terzi per la soddisfazione di esigenze di tipo strettamente familiare.
Ed invero, il fondo patrimoniale, essendo rivolto a favorire la conservazione di una parte del patrimonio familiare, rappresenta una delle misure economiche previste dall’ordinamento per agevolare la famiglia.
Tuttavia, tale strumento, nella prassi applicativa, ha notevolmente disatteso le aspettative del legislatore, essendo stato utilizzato assai di rado per il perseguimento delle finalità solidaristiche attribuitegli dall’art. 167 c.c. e divenendo, invece, strumento privilegiato per sottrarre singoli cespiti all’esecuzione da parte dei creditori o all’apprensione da parte della curatela fallimentare.
Pertanto, dopo un primo momento di scarsa applicazione, negli ultimi tempi è stato spesso utilizzato sotto il profilo dell’ostacolo alla realizzazione della garanzia patrimoniale.
Capitolo 1
REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La comunione legale. – 3. La separazione dei beni. – 4. Le convenzioni matrimoniali.
1. Premessa
Il diritto di famiglia disciplina il matrimonio, i rapporti tra i coniugi e fra questi e i figli, la filiazione illegittima e naturale, l’adozione e gli organi di protezione degli incapaci. La famiglia trova il suo fondamento costituzionale all’art. 29 della Costituzione, secondo cui la “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
La locuzione “società naturale” indica la mutabilità del costume sociale e l’evoluzione del concetto di famiglia e dei rapporti fra i suoi componenti. Alcuni esempi di tale mutabilità sono l’introduzione del divorzio e l’abolizione della potestà maritale.
L’art. 30 co. 1, della Costituzione riconosce specifici compiti alla famiglia: “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire e educare i figli anche se nati fuori dal matrimonio”. I diritti a cui fa riferimento la Costituzione sono quelli propri del matrimonio, il quale ha una significativa importanza civile, morale e religiosa.
Il legame matrimoniale unisce gli sposi col vincolo coniugale e fa sorgere fra loro rapporti personali e patrimoniali.
I rapporti patrimoniali sono caratteristici del nucleo familiare e rendono possibile il raggiungimento delle sue finalità (allevamento, educazione, istruzione della prole ecc). Tali rapporti sono regolati dal c.d. “regime patrimoniale”, ossia la disciplina delle spettanze e dei poteri che ogni coniuge possiede, in ordine all’acquisto e alla gestione dei beni.
“Il regime patrimoniale dei coniugi è costituito dalla disciplina cui sono sottoposti i beni appartenenti ai medesimi”.
Il regime legale “tipico” di comunione legale dei beni fra i coniugi discende dal “Code Napoleon” francese e trova la sua ratio nella tutela la donna, fondandosi sul principio che le fortune economiche del marito sono dovute alla moglie per l’impegno materiale e spirituale di quest’ultima.
Il modello opposto, ossia la separazione dei beni, è tipico dei paesi di Common Law e della Germania.
L’Italia ha recepito sostanzialmente il modello francese, introdotto con la riforma del diritto di famiglia 1975, la quale ha realizzato una redistribuzione dei doveri e poteri all’interno della famiglia. La Riforma del 1975, che ha rimodellato e talvolta trasformato radicalmente gli originari istituti, è nel suo insieme permeata da un nuovo spirito di eguaglianza dei coniugi non solo di fronte alla legge ma, anche e soprattutto, fra di loro all’interno di quell’essenziale nucleo sociale di base che è la famiglia.
Il nostro ordinamento prevede una pluralità di regimi patrimoniali tipici, quali: la comunione legale, intesa come regime di cogestione e comunione degli acquisti, che opera in assenza della scelta di un regime convenzionale e stabilisce che i beni acquistati dopo la celebrazione del matrimonio sono di proprietà comune; il fondo patrimoniale, come regime di cogestione di uno o più beni destinati ai bisogni familiari, la cui scelta è demandata alla volontà degli sposi; la separazione dei beni, anch’essa demandata ad una convenzione matrimoniale tra i coniugi.
Gli sposi possono, dunque, decidere, attraverso una convenzione matrimoniale, quale regime patrimoniale adottare nei loro rapporti; tuttavia se non ne scelgono alcuno, subentra il regime della comunione legale, in quanto regime patrimoniale legale.
I coniugi hanno, altresì, facoltà di stipulare apposite convenzioni matrimoniali (c.d. atipiche) che disciplinano i loro rapporti patrimoniali in modo difforme (in tutto o in parte) rispetto alle discipline dei regimi patrimoniali tipici sopraindicati; e ciò in forza del generale principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. e fatti salvi i limiti dallo stesso previsti.
2. La comunione legale
La comunione legale dei beni indica sia il regime patrimoniale, che regola i rapporti patrimoniali fra i coniugi in mancanza di una diversa convenzione, sia il rapporto di contitolarità, che viene a costituirsi con riguardo degli acquisti caduti in comunione, così come viene regolamentato dal Codice civile del 1942 e dalla L. 151/1975.
Il regime della comunione legale è stato introdotto con la riforma del diritto di famiglia, prendendo spunto dai principi di solidarietà e uguaglianza tra i coniugi, trasponendo sul piano economico i valori morali del matrimonio.
Tale regime si presenta come una disciplina globale dei rapporti patrimoniali tra coniugi, e differisce dalla comunione ordinaria che indica la contitolarità del diritto di proprietà o di altri diritti reali e la disciplina di tale contitolarità.
La comunione legale è quindi il regime patrimoniale legale tra gli sposi, in virtù del quale, in mancanza di convenzioni matrimoniali volte ad adottare altri regimi, i rapporti patrimoniali vengono disciplinati.
La famiglia a cui si riferisce il legislatore è fondata sul matrimonio, quindi il regime della comunione legale dei beni non può riguardare la famiglia di fatto, perché l’applicazione di tale disciplina è vincolata all’esistenza del vincolo matrimoniale.
La ratio del regime legale è individuata nella presunzione assoluta di contribuzione personale ed economica di entrambi i coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. La disciplina della comunione legale può essere parzialmente derogata dagli sposi tramite convenzioni matrimoniali.
La derogabilità ha dei limiti, dovendo, anzitutto, rispettare il principio di uguaglianza; per cui sono da ritenere nulli sia i patti volti ad escludere un coniuge dall’amministrazione dei beni comuni sia i patti che alterano la regola paritaria degli acquisti, in virtù della quale ad ogni coniuge spetta la metà degli acquisti (210 c.c.).
La comunione legale si caratterizza per essere:
a) non universale, in quanto alcune categorie di beni sono escluse;
b) non necessaria, poiché i coniugi possono optare per un altro regime patrimoniale;
c) vincolata, nel senso che ciascun coniuge perde la sua autonomia non potendo disporre da solo dei beni comuni, neppure per avvantaggiare il consorte.
Il regime della comunione legale può essere considerato un regime di comunione degli acquisti, in quanto comprende gli acquisti successivi al matrimonio ed esclude quelli anteriori alla celebrazione e alcuni beni personali anche se acquistati in seguito al matrimonio.
È possibile fare una distinzione tra beni:
a) beni comuni, cioè i beni che appartengono ad entrambi i coniugi, acquistati dopo il matrimonio, anche separatamente, ad eccezione di quelli personali;
b) beni comuni di residuo, ossia quei beni che divengono comuni per la parte residua al momento dello scioglimento della comunione.
Vengono esclusi dalla comunione i beni personali, mentre fanno parte dei beni di residuo: i frutti, naturali e gli interessi, o gli utili prodotti dai beni; i vantaggi economici acquisiti dal coniuge, in quanto titolare del bene; i guadagni di ciascun coniuge; i beni destinati all’esercizio dell’impresa.
All’interno del patrimonio di ciascun coniuge possiamo individuare tre distinte masse, regolamentate dagli artt. 177, 178 e 179 c.c. 1) l’art 177 c.c. stabilisce che gli acquisiti compiuti dagli sposi insieme o separatamente durante il matrimonio e le aziende costituite dopo il matrimonio costituiscono oggetto della comunione (lett. a) e d) del suddetto art.; 2) l’art 177, lett. b) e c) e l’art 178 dispongono che anche i frutti dei beni propri ed i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione, ed i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi, dopo il matrimonio, verranno inclusi nei beni della comunione.
In questi casi si parla di comunione residuale o “de residuo”; 3) l’art 179 c.c. determina i beni che non costituiscono patrimonio familiare, ossia quegli oggetti che rimangono beni personali di ciascun coniuge.
È emersa un’aspra disputa relativa alla questione se gli acquisti effettuati dai coniugi nel periodo transitorio rientrino in comunione, e a decorrere da quale data; la dottrina propende per ritenere caduti in comunione anche gli acquisti compiuti in tale periodo, purché sussistenti alla data di cessazione del periodo stesso.
La norma indica quindi come oggetto della comunione il concetto di “acquisto”, dal significato molto ampio. I coniugi possono inoltre ampliare l’oggetto della comunione, ossia includere anche beni personali.
Questo assoggettamento deriva da una libera scelta di un coniuge a favore dell’altro.
La legge determina infine le modalità e il tempo di acquisto. Per quanto concerne la modalità, gli acquisti cadono in comunione sia se acquistati insieme che separatamente dai coniugi.
Quanto, poi, al tempo dell’acquisto, rientrano nei beni della comunione gli acquisti avvenuti durante il matrimonio, non rientrando quindi i beni acquisiti prima dell’unione o dopo lo scioglimento della stessa. Il regime di comunione legale fra i coniugi non è, pertanto, applicabile ai conviventi more uxorio.
La comunione fra coniugi si presenta come una fattispecie che opera su un piano dinamico diversamente dalla comunione ordinaria, che opera su un piano statico; inoltre la prima è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidamente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei.
La gestione della comunione è basata sul principio della parità: i coniugi hanno gli stessi poteri di amministrazione.
Per quanto concerne gli atti di ordinaria gestione, ossia gli atti di spesa o di impegno compiuti nel normale esercizio del patrimonio e per le necessità familiari, vige la regola dell’amministrazione disgiuntiva, secondo la quale ciascuno dei coniugi può compiere l’atto senza il consenso dell’altro.
Mentre per gli atti di straordinaria gestione, cioè per gli atti che non sono compresi nella normale gestione del patrimonio o nella conduzione della famiglia, come gli atti di alienazione e trasformazione del capitale, vige invece la regola dell’amministrazione congiuntiva, per cui è richiesto il consenso di entrambi i coniugi.
3. La separazione dei beni
Il regime della separazione dei beni disciplina la separazione della gestione e di titolarità esclusiva dei beni . Il suddetto regime era, prima della riforma, il regime patrimoniale legale, teso ad attribuire alla moglie il godimento e l’amministrazione dei beni parafernali, cioè quei beni della donna che non costituivano patrimonio familiare.
Della separazione dei beni, che oggi costituisce statisticamente il regime patrimoniale più diffuso nelle famiglie coniugali, adottato dai coniugi mediante convenzione matrimoniale, sono sopravvissute nel codice civile, dopo la riforma del 1975, soltanto 4 norme: gli articoli 215, 217, 218, 219. L’art 215 c.c. stabilisce che “i coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità dei beni acquistati durante il matrimonio”.
Quindi, gli acquisti che ciascun coniuge effettua in regime di separazione dei beni rimangono di esclusiva proprietà del coniuge acquirente. Il bene, invece, acquistato e pagato da entrambi i coniugi, entra in comunione ordinaria.
L’altro coniuge non può vantare alcun diritto sui beni stessi; anche se è ammissibile che il regime di separazione si accompagni alla costituzione del fondo patrimoniale su determinati beni oppure che in un regime di comunione alcuni beni siano esclusi dal regime stesso.
Inoltre la separazione può avvenire, nei casi in cui sia intervenuta una causa di cessazione del regime di comunione non incidente sull’esistenza del vincolo matrimoniale (separazione personale dei coniugi o fallimento).
Ci sono, inoltre, dei casi in cui i coniugi entrano nel regime patrimoniale di separazione dei beni non per scelta ma automaticamente.
Si fa riferimento all’art. 191 del c.c. che indica il fallimento di uno dei coniugi tra le ipotesi in cui la comunione legale si scioglie automaticamente.
Ad esempio, se un imprenditore fallito decide di contrarre matrimonio, non può, al momento della celebrazione, entrare in comunione legale, ma entra automaticamente in regime di separazione dei beni.
La separazione dei beni fa da sfondo e da supporto al regime legale della comunione e rappresenta il regime suppletivo nel caso in cui quest’ultimo regime venga meno nel corso del matrimonio, ove i coniugi non abbiano optato per un differente regime convenzionale.
L’art 217 c.c., prevede che il coniuge titolare della proprietà del bene “ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare”; il titolo di proprietà e i diritti di godimento e di amministrazione coincidono. Se è vero che da una parte la separazione dei beni offre soprattutto protezione al coniuge proprietario è anche vero che il regime di separazione può certamente offrire anche una maggiore tutela al coniuge non proprietario.
Si pensi al caso in cui uno dei due coniugi sia imprenditore. I creditori, in regime di comunione legale, secondo quanto prevede l’art 189 c.c. co. 2, potrebbero rivalersi sia pure pro quota sui beni facenti parte della comunione, quindi la scelta della separazione in questi casi potrebbe avere anche la funzione di protezione del coniuge non imprenditore.
Un potere assoluto del coniuge proprietario potrebbe porsi potenzialmente in conflitto con le regole della solidarietà coniugale, ossia con l’obbligo di entrambi i coniugi “di contribuire ai bisogni della famiglia” (art. 143 c.c.).
L’esigenza di mantenere in primo piano le regole della solidarietà coniugale ha comportato la determinazione dei correttivi al potere assoluto del coniuge proprietario dettati nel regime di separazione dei beni.
Alcuni di questi correttivi sono previsti nel codice civile, altri sono reperibili nelle applicazioni giurisprudenziali.
L’art 218 c.c. afferma il principio che il coniuge che gode i beni dell’altro coniuge, “è soggetto a tutte le obbligazioni dell’usufruttuario”.
Quindi ne deve rispettare la destinazione economica (art. 981 co. 1 c.c) e deve usare la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1001 c.c.). Questa norma, delinea solamente gli obblighi del coniuge non proprietario e non ne indica paradossalmente i diritti.
Una lacuna importante, che in parte è stata colmata dall’interpretazione dell’art 218 come riferibile non solo agli obblighi dell’usufruttuario ma anche ai diritti di quest’ultimo. La normativa della separazione dei beni è molto esigua e riguarda:
a) il profilo di dell’amministrazione e del godimento, da parte di un coniuge, del patrimonio dell’altro; frequenti sono i casi in cui il patrimonio di un coniuge viene amministrato, in tutto o in parte, dall’altro; ciò può accadere sulla base di un contratto di mandato, ma nella maggior parte delle situazioni il coniuge titolare dei beni si limita a consentire di fatto all’altro di amministrare;
b) la prova della titolarità dei beni; accade, infatti, che il coniuge gode di beni appartenenti all’altro o comunque il fatto che i medesimi si trovino nella casa coniugale può creare problemi in ordine alla prova dell’effettiva titolarità, nel caso in cui sorgano controversie; per tale ragione l’art. 219 c.c. consente al coniuge di dimostrare, con ogni mezzo, la titolarità esclusiva di un bene (comma 1), e i beni di cui nessuno dei coniugi può provare la proprietà esclusiva, sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (comma 2); la presunzione di comproprietà è da considerarsi derogabile dai coniugi.
Suddetta norma può essere considerata una deroga agli articoli 2721 e seguenti c.c. e all’art 2729 co 2, c.c.
La norma si riferisce ai beni mobili, ed è volta principalmente a derogare alla regola generale sull’onere della prova il tema di rivendicazione dei beni mobili (Cass. Civ. sez. I, 2 agosto 2013, n. 18554) ed intende agevolare la prova di tale controversie proprio in ragione del principio di comune fruizione dei beni acquistati da un coniuge nel corso del matrimonio.
Nessuna deroga invece si configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari (Cass. Civ. sez I, 2 agosto 2013, n. 18554; Cass. Civ. sez I, 15 novembre 1997, n.11327).
La separazione dei beni viene meno in caso di convenzione coniugale, che da vita ad un regime di comunione, o per scioglimento del legame coniugale.
Tuttavia, il regime di separazione dei beni può convivere con il regime di comunione legale dei beni; difatti essendo la comunione non universale, possono esservi dei beni personali per i quali si applicano le norme della separazione.
Il regime della separazione dei beni può diventare operativo a seguito di una volontà positiva o negativa; nel primo caso i coniugi esprimono la scelta della separazione con l’intento di definire le regole operative del regime prescelto, mentre nel secondo caso i coniugi si limitano ad escludere l’operatività del regime della comunione dei beni.
I coniugi possono avvalersi dell’art. 162 co. 2 c.c. scegliendo il regime della separazione dei beni, ma un’eventuale modificazione delle regole legali non consentirebbe di inserire tali pattuizioni nell’atto di matrimonio, essendo necessaria invece una apposita convenzione matrimoniale da stipularsi per atto pubblico, come nella costituzione del fondo patrimoniale.
La scelta del regime di separazione adottato dai coniugi può essere effettuata tramite convenzione dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio.
Si è discusso in dottrina se il legislatore abbia inteso riferirsi con la locuzione “atto” al momento in cui si celebra il matrimonio ovvero al documento con cui si dichiara l’avvenuta celebrazione; si è operata una distinzione tra la natura di questi due atti, essendo l’uno di natura personale e l’altro di natura patrimoniale.
Di conseguenza, si ritiene che il momento più consono, per esprimere la scelta del regime di separazione dei beni, sia il momento della compilazione dell’atto di matrimonio.
La separazione dei beni può essere scelto con apposita convenzione matrimoniale, anche dopo il matrimonio; tale convenzione ha effetto ex nunc, ponendo fine al regime di comunione e instaurando tra i coniugi un regime di comunione ordinaria.
Infine, è importante evidenziare che la manifestazione di volontà contraria all’operare della comunione legale dei beni può essere espressa anche da uno solo degli sposi, eventualmente anche all’insaputa dell’altro.
4. Le convenzioni matrimoniali
“La convenzione matrimoniale è il negozio bilaterale mediante il quale gli sposi, con l’eventuale partecipazione di un terzo, danno vita ad un regime patrimoniale della famiglia”.
La convenzione è di solito un accordo bilaterale tra i coniugi ma, in caso di costituzione del fondo patrimoniale, può anche consistere in un negozio complesso, nell’ipotesi in cui interviene anche un soggetto terzo costituente.
Inoltre, le convenzioni vengono finalizzate a discriminare l’appartenenza e l’amministrazione dei beni acquistati durante il matrimonio.
L’art.162 c.c. prevede che le convenzioni matrimoniali debbano essere stipulate per atto pubblico, con la conseguenza che la presenza di testimoni è indispensabile, a pena di nullità.
Per la stipula delle convenzioni matrimoniali, non è richiesta la presenza dei coniugi, potendo la stessa avvenire anche tramite procura.
Le convenzioni possono essere stipulate antecedentemente o successivamente alla celebrazione del matrimonio; ovviamente nel primo caso gli effetti sono condizionati alla celebrazione medesima.
Le convenzioni matrimoniali che mutano le convenzioni precedenti devono essere stipulate con il consenso di tutte le parti stipulanti e, nel caso del fondo anche del costituente o dei suoi eredi, è possibile sia modificare il contenuto delle convenzioni (art 163 c.c.), che conferire efficacia alla contro-dichiarazione scritta volta a costituire la prova dell’accordo simulatorio (art 164 c.c.).
La prova della simulazione è consentita ai terzi.
La stipulazione di una convenzione matrimoniale richiede, in quanto atti negoziali, la capacità di agire; tuttavia ci sono alcune eccezioni, come nel caso del minore, il quale deve essere autorizzato a contrarre matrimonio, dai genitori o dal tutore, ma può stipulare personalmente le convenzioni, in quanto con il matrimonio acquista l’emancipazione. Nella situazione in cui i genitori/tutore si oppongano, il giudice può nominare un curatore speciale.
Il curatore viene richiesto per fornire assistenza al coniuge inabilitato e per il minore emancipato.
Per quanto riguarda l’interdetto per infermità mentale, non sono previste delle restrizioni; difatti il soggetto potrà stipulare le convenzioni, in seguito al matrimonio, per mezzo del tutore.
Tuttavia se l’interdizione è precedente al matrimonio viene preclusa la celebrazione.
Il regime delle convenzioni matrimoniali richiede l’onere della pubblicità.
Esistono due eccezioni alla regola della stipulazione per atto pubblico: la prima è prevista dal comma 2 del medesimo articolo, che indica la possibilità di scegliere il regime di separazione dichiarando la scelta nell’atto di celebrazione del matrimonio; la seconda è rappresentata dall’art 167 c.c., che prevede la costituzione del fondo patrimoniale anche per testamento.
L’art. 162 c.c. regola il regime di pubblicità delle convenzioni matrimoniali.
La disciplina pubblicitaria prevista dal legislatore si basa su un doppio binario di oneri pubblicitari:
a) la convenzione deve essere annotata a margine dell’atto di matrimonio (art.69 regol. st. civ emanato col DPR n.396/2000), su iniziativa del notaio rogante, come indicato dall’art. 34-bis disp. Att. c.c., il quale ha l’obbligo di annotazione entro trenta giorni, dalla data del matrimonio, per le convenzioni stipulante ex ante o in contestualità del matrimonio e dalla data della convenzione nel caso della stipula ex post. Le annotazioni riportano gli estremi delle convenzioni matrimoniali senza specificare il contenuto;
b) nel caso in cui le convenzioni contengano la costituzione del fondo patrimoniale su beni immobili, ossia l’esclusione di suddetti beni dalla comunione, occorre procedere alla trascrizione nei registri immobiliari.
Sono soggette a trascrizione anche gli atti di scioglimento della comunione e gli atti di acquisto di beni personali (mobili e immobili, iscritti in pubblici registri) non compresi nella comunione o nel fondo, in quanto destinati all’uso professionale o personale del coniuge.
La pubblicità sui registri dello stato civile rende pubblico il regime prescelto dai coniugi, mentre quella sui registri immobiliari rende note le eccezioni, che derivino da un regime di carattere generale.
L’annotazione costituisce un mezzo di pubblicità notificativa, quindi secondo tale prospettiva, se manca l’annotazione, la convenzione non è opponibile ai terzi, mentre nel caso di mancanza della trascrizione l’inopponibilità è limitata al singolo bene rispetto al quale l’onere pubblicitario non è stato adempiuto.
La giurisprudenza prevalente sostiene che l’annotazione costituisce condizione necessaria per l’opponibilità dei terzi alla convenzione, non agli atti singolarmente assoggettati al regime della trascrizione, che possono essere opposti ai terzi, in quanto trascritti.
Di contro, alla trascrizione viene riconosciuta una mera funzione di pubblicità o, secondo alcuni, potrebbe essere considerata un ulteriore e necessario requisito di opponibilità dell’atto, in aggiunta all’annotazione.
Capitolo 2
IL FONDO PATRIMONIALE
SOMMARIO: - 1. Premessa. – 2. Nozione e natura giuridica del fondo patrimoniale. – 2.1. Funzione del fondo patrimoniale. – 3. Oggetto e costituzione del fondo patrimoniale. – 3.1. Modalità di costituzione del fondo patrimoniale. – 3.2. Pubblicità del fondo patrimoniale. – 4. La gestione del fondo patrimoniale. – 4.1. Atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione. – 4.2. La responsabilità nella amministrazione del fondo. – 4.3. I frutti. – 5. Il fondo patrimoniale e la tutela dei creditori: il concetto di “bisogni familiari” e le obbligazioni garantite dal fondo. – 5.1. L’esecuzione sui beni del fondo. – 5.2. L’ipoteca sui ben del fondo. – 5.3. Le azioni a difesa dei creditori: azione revocatoria, azione di simulazione, actio nullitatis. – 5.4. Azione revocatoria fallimentare. – 5.4.1. L’opponibilità al fallimento. – 5.4.2. Segue: azione di inefficacia ex art. 64 L.F. e revocatoria fallimentare ex art. 67 L.F.
1. Premessa
Il fondo patrimoniale è l’erede dell’abrogato patrimonio familiare. Nonostante la presenza di vari profili comuni, gli istituti tra loro sono assai diversi, sia sotto il profilo della loro ratio ispiratrice che della disciplina.
Analogamente al patrimonio familiare, il fondo patrimoniale comporta la costituzione di un vincolo su determinati beni per i bisogni della famiglia (cioè dei coniugi e dei figli minori anche dopo lo scioglimento del matrimonio); tuttavia, l’intensità del vincolo è differente, essendo maggiore nell’istituto del patrimonio familiare, così da assicurare al complesso di beni stabilità e durata, in armonia con quelli che erano un tempo i caratteri del matrimonio.
Infatti, mentre il patrimonio familiare sottraeva sempre e comunque i beni alla garanzia dei creditori, che potevano esecutarne solo i frutti, il fondo patrimoniale consente che gli stessi possano aggredire non soltanto i frutti, ma anche i beni medesimi, sia pure nei limiti posti dall’art. 170 c.c.
L’ulteriore e più significativo aspetto distintivo tra i due istituti è costituito dal fatto che il patrimonio familiare permetteva la costituzione unilaterale del vincolo da parte del singolo coniuge, che rimaneva l’esclusivo proprietario dei beni destinati, e ammetteva la gestione separata dei beni da parte dello stesso.
Diversamente, nel fondo patrimoniale, è richiesto l’accordo dei coniugi per la costituzione del vincolo e la titolarità dei beni appartiene ad entrambi, ai quali correlativamente è attribuita la gestione.
Nella pratica, il patrimonio familiare non ha avuto molto riscontro, soprattutto perché l’esigenza di preservare alcuni beni dalle vicende economiche dei coniugi veniva soddisfatta dall’istituto della dote. La legge di riforma, al contrario di ciò che è accaduto per la dote, non ha vietato la costituzione dei patrimoni familiari, ma ha disciplinato diversamente il vincolo di destinazione dei beni ai bisogni della famiglia, mediante l’istituto del fondo patrimoniale. Il legislatore del 1975 ha cercato di adeguare gli istituti familiari alle nuove esigenze della società, cercando di dare attuazione ai principi quali l’eguaglianza tra i coniugi, anche in materia patrimoniale, e la solidarietà familiare ai fini del perseguimento degli interessi della famiglia.
2. Nozione e natura giuridica del fondo patrimoniale
La disciplina del fondo patrimoniale è stata introdotta dalla L.19.5.75 n.151 ed è oggi contemplata dagli articoli da 167 a 171 del Codice civile.
Pur mancando nel testo legislativo una definizione di tale figura, il fondo può essere definito come un “patrimonio di destinazione” volto a garantire l’adempimento delle obbligazioni contratte per il soddisfacimento dei bisogni familiari , e quindi non può essere costituito al di fuori del vincolo matrimoniale.
Controversa è la natura giuridica del fondo. La dottrina maggioritaria sostiene che si tratta di un patrimonio separato, mentre altri autori ritengono che il fondo costituisce un patrimonio autonomo.
Tale distinzione presupporrebbe una definizione certa di patrimonio separato e di patrimonio autonomo; ma in dottrina non c’è un parere unanime in merito, tanto che alcuni autori sono giunti a conclusioni difformi partendo dalle stesse premesse. In proposito, si è ritenuto che la differenza tra le due figure non sia da ravvisare nella natura individuale o collettiva del titolare dei beni, ma piuttosto nel grado di autonomia che li contraddistingue dal patrimonio generale del soggetto.
Più precisamente, il patrimonio separato allude al fenomeno del distacco di una parte del patrimonio, che continua ad appartenere allo stesso soggetto, mentre il patrimonio autonomo è quello che viene attribuito ad un nuovo soggetto mediante la creazione di una persona giuridica, o anche ad un ente che sebbene sprovvisto di personalità è, dotato di autonomia patrimoniale, anche se imperfetta.
In considerazione di ciò, si è dunque affermato che il fondo patrimoniale va inquadrato nella figura del patrimonio separato, poiché pur continuando ad appartenere allo stesso soggetto, ossia ai coniugi, è destinato ad uno scopo specifico, in virtù del quale è sottoposto a determinati vincoli; non è quindi un patrimonio appartenente alla famiglia, quale autonomo soggetto giuridico.
Costituire un fondo patrimoniale significa creare un contenitore in cui far confluire, in uno o più momenti, diversi beni e non solo imporre determinati vincoli su di essi. Ciò potrebbe avere conseguenze rilevanti nel caso in cui si considerino più atti successivi; in tal caso non si può parlare di semplice imposizione di vincoli su un bene, giungendo a considerare ogni atto a sé stante e ritenendo quindi possibile la costituzione di più fondi patrimoniali.
Occorre prendere in considerazione il fondo come un patrimonio separato, suscettibile di accrescimento e di decremento, potendo così riconoscere ad esso una unitarietà.
Pertanto qualora ci fossero più atti successivi, non si avranno molteplici fondi patrimoniali, ma uno solo, ossia quello costituito con il primo atto che incrementerà in forza dei successivi atti di destinazione di altri beni.
In virtù di ciò chiunque può attribuire beni ulteriori a un fondo precostituito o modificare lo stesso mediante la partecipazione di un nuovo soggetto conferente.
Si è altresì discusso se il fondo patrimoniale costituisca un regime convenzionale al pari dei regimi patrimoniali generali.
In senso sfavorevole è stato rilevato che nella sezione II del capo VI del codice che racchiude la disciplina del fondo patrimoniale, non vi è alcun riferimento all’istituto della convenzione matrimoniale, a differenza di quanto previsto per la separazione dei beni e la comunione convenzionale.
Inoltre sul piano sistematico, solo per il fondo la riforma ha introdotto una specifica disciplina relativamente alla trascrizione nei registri immobiliari ( art. 2647 c.c. ), formalità pubblicitaria dalla quale si evince la sua estraneità al sistema pubblicitario dell’annotazione a margine dell’atto di matrimonio, valevole invece per i regimi patrimoniali convenzionali.
In senso favorevole, invece, si osserva che il fondo si sostanzia in un accordo programmatico volto a dare vita ad un complesso di norme regolatrici di singoli e determinati rapporti patrimoniali, inserito nel contesto di un più ampio regime generale rispetto al quale il fondo si connota per essere circoscritto a singoli beni.
Secondo questa impostazione, il fondo non è altro che una comunione convenzionale tipizzata dal legislatore; per cui, si può concludere rilevando che lo strumento convenzionale ha in ambito familiare un rilievo generale, potendo essere impiegato tanto per la regolamentazione complessiva dei rapporti patrimoniali tra i coniugi, quanto per disciplinare in modo particolare alcuni beni o rapporti, in costanza di un regime generale.
Molto spesso si utilizzano indifferentemente i termini fondo e vincolo. In realtà bisogna tenere presente che con il primo si suole indicare un complesso di beni, assoggettati ad un determinato regime comune, mentre con il secondo si vuole mettere in luce la funzionalizzazione dei beni suddetti, i quali comportano alcuni limiti di disponibilità.
Qualche autore ha privilegiato l’aspetto vincolistico del fenomeno, intendendo il fondo come un vincolo che viene imposto sul bene determinandone una specifica disciplina. Secondo costoro, esso non costituisce un regime patrimoniale della famiglia, alternativo a quello della comunione legale e di separazione dei beni, ma soltanto un vincolo su determinati beni, che si inserisce su un regime base.
Risulta, altresì, controversa la natura giuridica dell’atto di destinazione dei beni al fondo patrimoniale. La dottrina prevalente ritiene che il negozio costitutivo del fondo sia un negozio tipico, con causa propria, intesa come la funzione economico-sociale dell’atto di volontà. Si ritiene che la causa attributiva nel caso di costituzione da parte di un terzo o di uno solo dei coniugi, abbia natura liberale o comunque gratuita.
Più precisamente, secondo alcuni, l’atto ha natura donativa, ed è pertanto soggetto alle norme sulla donazione, o sulla donazione obnunziale, e alle norme sulla successione testamentaria, quando la costituzione sia fatta per testamento, e sempreché non risulti una loro incompatibilità con i principi propri dell’istituto.
Altri autori invece propendono verso l’inesistenza di una causa attributiva diversa dalla causa propria del negozio tipico. Non risulta importante indagare, di volta in volta, se il conferimento dei beni è motivato da spirito di liberalità, da impulso solidale, da senso del dovere morale o da altro; lo scopo è oggettivamente fissato dalla legge e non consente distinzioni basate su verifiche di tipo soggettivo.
Altri ancora ritengono che la natura giuridica dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale non è sempre di natura liberale, ma assume di volta in volta una causa diversa. La liberalità ricorre in tutti i casi in cui il costituente (il terzo o il coniuge) attribuisce ai coniugi (o all’altro coniuge), senza esservi giuridicamente obbligato, la proprietà o altro diritto reale sui beni conferiti al fondo.
L’arricchimento che deriva dall’atto di liberalità, si sostanzia nel trasferimento della titolarità del diritto,che viene utilizzato a vantaggio della famiglia, con conseguente sgravio dei beni personali del beneficiario dall’obbligo contributivo.
Ciò non influisce sulla tipicità del negozio, che si configura come contratto di donazione. Quando invece il terzo dà origine al fondo per adempiere al proprio obbligo alimentare verso i coniugi o all’obbligo di mantenimento verso i discendenti,nel caso in cui i loro genitori siano carenti di mezzi, non siamo in presenza di un atto di liberalità.
Tale modalità di adempimento va concordata fra le parti, perché non comporta diretta attribuzione dei mezzi di sostentamento, come invece è previsto dalla legge.
Si evidenzia infine la mancanza della liberalità quando l’atto di costituzione del fondo è stipulato per adempiere ad un onere inserito in una donazione od in un lascito testamentario compiuto a favore del costituente, o viene richiesto per rendere possibile l’avveramento di una condizione, o infine quando viene compiuto per adempiere ad un precedente obbligo assunto contrattualmente.
In tutte queste ipotesi l’atto di liberalità non sussiste neanche quando l’iniziativa di dare vita al fondo proviene dal coniuge. C’è anche chi ammette la possibilità che il momento attributivo dei beni abbia causa onerosa e che sia quindi dettata per finalità di perseguimento di un interesse personale.
Questo si verifica quando il terzo alienante in connessione con una alienazione di beni intende subordinare l’efficacia del negozio di trasferimento dei beni, alla loro destinazione in fondo patrimoniale da parte dei coniugi; o quando quest’ultimi acquistino il diritto contro il promittente per effetto di una stipulazione a favore di un terzo, con la clausola di destinazione in fondo patrimoniale, dietro corrispettivo.
La conseguenza di ciò è che l’efficacia della stipulazione dovrà ritenersi subordinata alla successiva stipula della convenzione matrimoniale da parte dei coniugi terzi acquirenti.
L’acquisto a favore dei coniugi può avvenire a titolo oneroso quando il trasferimento della proprietà o di altro diritto, o anche la semplice imposizione di un diritto di godimento a favore di questi ultimi sia unito al nesso relativo ai bisogni della famiglia.
Una dottrina minoritaria, ma autorevole, osserva che l’interesse delle parti può trovare componimento in una attività negoziale a carattere corrispettivo, soprattutto quando il terzo sia spinto all’attribuzione dal duplice movente della costituzione del fondo e della controprestazione in suo favore. In queste ipotesi si ravvisa l’esclusione della liberalità anche se la costituzione scaturisce dall’attribuzione di uno dei coniugi a vantaggio dell’altro.
Alla tesi della natura onerosa del negozio attributivo dei beni al fondo patrimoniale, si oppone la giurisprudenza prevalente, la quale continua ad affermare la gratuità del negozio suddetto.
La Cassazione si è pronunciata in relazione all’applicabilità dell’art.2901 c.c., affermando che in tema di azione revocatoria, l’atto di costituzione del fondo patrimoniale, essendo atto a titolo gratuito, può essere dichiarato inefficace nei confronti del creditore, in quanto rende i beni conferiti aggredibili solo a determinate condizioni, riducendo così la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti.
2.1. Funzione del fondo patrimoniale
Il fondo patrimoniale permette di realizzare una molteplicità di scopi: innanzitutto, dà maggiore forza e concretezza alla fruizione da parte della famiglia dei beni e dei frutti conferiti nel fondo; inoltre, accanto alla previsione di un vincolo di inalienabilità, variabile nel suo contenuto, la previsione di una rigorosa forma di inespropriabilità a tutela delle pretese dei creditori familiari, consente da una parte di porre i beni oggetto del fondo al di fuori dei rischi derivanti da una non oculata gestione delle vicende patrimoniali dei coniugi e, dall’altra, di agevolare la possibilità di soddisfare le esigenze familiari.
“Il vincolo costituisce in tal modo per un verso peculium familiare e per altro garanzia espressa per i creditori ” Il fondo patrimoniale può essere istituito tramite la destinazione di alcuni beni che possono essere di proprietà di entrambi i coniugi, di proprietà esclusiva di uno di essi o anche di proprietà di un terzo, estraneo ai rapporti di famiglia, il quale può intervenire attraverso un atto inter vivos o un atto mortis causa.
Il fondo può infatti essere costituito sia tramite testamento che con convenzione matrimoniale, le parti necessarie dei quali sono i coniugi ed eventualmente il terzo. Lo scopo del fondo a vantaggio della famiglia si esplica, in modo essenziale e indispensabile, nell’obbligo dei coniugi di utilizzare i beni e i frutti, ad esclusivo interesse e per i bisogni della stessa. Quando si parla di “bisogni” si fa riferimento alle esigenze di vita dei membri della famiglia (cure mediche, formazione professionale, godimento di svaghi ecc) e anche le spese necessarie a rendere produttivi i beni sottoposti al vincolo del fondo.
I bisogni che il fondo deve soddisfare coinvolgono sia i coniugi che i figli, senza distinzione fra figli legittimi ed adottivi, affiliati ed i minori in affidamento temporaneo. Controverso è invece il soddisfacimento di bisogni dei figli di un solo coniuge, in quanto l’altro coniuge non ha nessun obbligo di mantenimento.
Secondo la Cassazione, l’atto di costituzione di un fondo patrimoniale determina un quid novi, cioè un vincolo di destinazione dei beni in esso confluiti, senza, con ciò, avere ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale . La stessa statuisce inoltre che il fondo patrimoniale è peraltro privo di personalità giuridica e quindi la proprietà dei beni accordati rimane sempre nella disponibilità di chi li ha conferiti e cioè dei coniugi (o del coniuge) o del terzo che abbiano provveduto a riservarsela nell’atto di costituzione.
Il Fondo patrimoniale si caratterizza inoltre per essere l’unico regime che, non sostituisce, ma affianca ed integra, il regime patrimoniale primario adottato dai coniugi, che può essere indifferentemente la comunione, la separazione dei beni o un regime convenzionale.
3. Oggetto e costituzione del Fondo Patrimoniale
I beni che possono essere destinati al fondo patrimoniale sono individuati dal legislatore all’art. 167 c.c. il cui primo comma prevede che possono costituire oggetto del fondo i beni immobili, i mobili registrati ed i titoli di credito; questi ultimi, tuttavia, devono essere vincolati rendendoli nominativi con annotazione del vincolo o “in altro modo idoneo”.
L’introduzione della categoria di beni mobili registrati, rappresenta una novità rispetto al previgente regime del patrimonio familiare. Si tratta di beni che, per la loro natura, possono essere oggetto di adeguata pubblicità e per i quali i terzi interessati possono agevolmente individuare l’eventuale vincolo imposto al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, attraverso la consultazione dei registri o degli altri mezzi di pubblicità. Al contrario, non possono costituire oggetto di conferimento i beni mobili non registrati. Secondo parte della dottrina, la ratio va rinvenuta nell’impossibilità di rendere il vincolo opponibile ai terzi mediante adeguati strumenti pubblicitari.
Alcuni Autori, invece, ritengono che la ragione di tale esclusione sia da ravvisare nella necessità per i beni mobili di una rapida circolazione che sarebbe ostacolata dal vincolo derivante dal fondo. In base a tale impostazione, tenendo conto di determinati limiti, alcuni beni mobili potrebbero costituire oggetto del fondo; si tratta di quei beni che costituiscono pertinenze, ovvero dei frutti, che pur essendo beni mobili, sono anch’essi destinati al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
I frutti devono considerarsi pertanto, a pieno titolo, beni del fondo, anche se il vincolo non sia pubblicizzabile, rimanendo così sottoposti, alla disciplina degli altri beni.
Sono stati sollevati inoltre dubbi in relazione alla conferibilità nel fondo di beni infruttiferi, i quali non sarebbero in grado di produrre un reddito da destinare ai bisogni della famiglia.
Autorevole dottrina ha osservato che il requisito della redditività non deve essere inteso come la concreta ed attuale capacità dei beni a soddisfare tali bisogni, bensì come l’idoneità, anche futura ed ipotetica, a produrre frutti per lo scopo che ha portato alla costituzione del vincolo.
Ne consegue che anche i beni infruttiferi possono costituire oggetto del fondo patrimoniale, in quanto il soddisfacimento dei bisogni familiari cui è destinato il fondo può essere realizzato mediante la loro alienazione e reimpiego del prezzo. Discussa è, infine, la possibilità di conferire nel fondo patrimoniale i beni futuri.
La dottrina prevalente esclude tale possibilità sia in considerazione del dato letterale dell’art. 167 c.c., sia della riferibilità a tale istituto delle norme in materia di donazione.
In particolare, l’art. 167 c.c., richiedendo espressamente la determinatezza dell’oggetto, lascia ipotizzare come i beni oggetto del fondo debbano essere in concreto esistenti e già individuati al momento della sua costituzione, di modo che beni non determinati, ma determinabili, ex art. 1346 c.c., non potrebbero costituire oggetto del fondo patrimoniale.
Si evidenzia, inoltre, che la costituzione del fondo patrimoniale avente ad oggetto beni futuri sarebbe una donazione di cosa futura e pertanto nulla, ex art. 771 c.c., poiché sussisterebbe un depauperamento-arricchimento a titolo gratuito.
Diversamente c’è chi sostiene che l’atto di costituzione del fondo è da considerarsi atto di liberalità diverso dalla donazione, non soggetto pertanto al divieto di destinazione dei beni futuri.
Secondo un’altra opinione, infine, lo stesso art. 167 c.c., secondo il quale al fondo possono attribuirsi “determinati beni”, non rappresenterebbe un ostacolo all’ammissibilità di tali conferimenti, in quanto la norma deve essere intesa in senso lato in modo da ricomprendere nell’oggetto del fondo anche beni determinabili o individuabili.
Indicare che il fondo patrimoniale deve essere costituito da determinati beni significa semplicemente che il vincolo deve gravare su uno o più beni destinati a questo scopo, e come tali sottoposti a questo vincolo.
Seguendo tale impostazione, possono formare oggetto del fondo i beni futuri, o meglio, le situazioni giuridiche future, essendo oggetto della costituzione non il bene materiale, bensì la situazione giuridica.
È importante precisare che oggetto del vincolo non è il bene ma un diritto sul bene, che può essere un diritto diverso della proprietà come l’usufrutto, la superficie, l’enfiteusi, la nuda proprietà ecc.
Questi diritti reali limitati hanno generato dei dubbi interpretativi, giacché non realizzerebbero lo scopo di una garanzia patrimoniale per la famiglia, non adempiendo quindi alla finalità tipica del fondo.
I beni conferiti ad un fondo patrimoniale di conseguenza, non possono formare oggetto di più fondi destinati alla soddisfazione di più famiglie: il vincolo di destinazione, infatti, può riguardare i bisogni di un unico nucleo familiare. La costituzione del fondo patrimoniale può avvenire sia ad opera dei coniugi tramite atto inter vivos, rispettando la prescritta forma dell’atto pubblico, sia ad opera di un terzo e, in tale ipotesi, l’atto di costituzione può essere contenuto anche in una semplice disposizione testamentaria.
Esso,come prevede il terzo comma dell’art. 167 c.c., può essere costituito sia prima che durante il matrimonio . L’art. 167 c.c., secondo comma, dispone, inoltre, che, qualora la costituzione avvenga per atto fra vivi e ad opera di un terzo, per il suo perfezionamento sia necessaria l’accettazione di entrambi i coniugi; la norma, tuttavia, non contiene un’analoga disposizione per l’ipotesi in cui alla costituzione abbia provveduto uno solo dei coniugi.
L’assenza di una espressa previsione normativa al riguardo, ha alimentato un notevole dibattito dottrinale in ordine alla necessità o meno dell’accettazione del coniuge non conferente e, di conseguenza, sulla natura unilaterale o plurilaterale dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale.
L’orientamento prevalente ritiene che l’atto sia sempre plurilaterale e, quindi, sia sempre necessario il consenso di entrambi i coniugi.
Di conseguenza, nell’ipotesi in cui alla costituzione del fondo abbia provveduto uno solo dei coniugi, l’atto è perfetto solo e nella misura in cui anche l’altro coniuge manifesti volontà adesiva.
La dottrina, pertanto, ritiene che l’atto costitutivo del fondo abbia carattere essenzialmente negoziale.
L’atto tra vivi, costitutivo del fondo patrimoniale, pone innanzi tutto il problema del suo rapporto con le convenzioni matrimoniali di cui all’art. 162 c.c. La dottrina e giurisprudenza prevalenti ritengono che il fondo patrimoniale si inquadri nel novero delle convenzioni matrimoniali, indipendentemente da chi sia il soggetto costituente dello stesso, tranne naturalmente nell’ipotesi di costituzione operata per atto mortis causa; ciò che contraddistingue il fondo patrimoniale rispetto alle altre convenzioni matrimoniali è la subordinazione dei beni in esso conferiti al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
3.1. Modalità di costituzione del Fondo patrimoniale
Ai sensi dell’art. 168 co. 1 c.c.“la proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi, salvo che sia diversamente stabilito dall’atto costitutivo”.
Da ciò deriva la possibilità per il costituente o i costituenti il fondo di riservarsi, totalmente o parzialmente, la proprietà dei beni conferiti o nell’ipotesi di fondo costituito da un terzo, la facoltà per quest’ultimo di attribuirne la proprietà, in tutto o in parte, ad uno dei coniugi.
La dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono che, anche nel caso di costituzione inter vivos (dai coniugi o da parte di terzi), la causa del negozio costitutivo il fondo patrimoniale abbia natura gratuita. La natura liberale dell’atto di destinazione si configura sia per l’assenza di controprestazione, sia per la rinuncia gratuita alle facoltà insite nel diritto di proprietà conferito, che, infine, per l’eventuale devoluzione di una quota di esso a favore dei figli. Parte minoritaria della dottrina ha affermato che la convenzione costitutiva del fondo è assimilabile alla donazione obnunziale.
A tale ricostruzione si è obiettato che la donazione obnunziale è finalizzata al solo arricchimento dei coniugi, senza imporre agli stessi alcun vincolo di destinazione, mentre con la costituzione del fondo patrimoniale si mira a realizzare uno specifico regime patrimoniale della famiglia.
La costituzione del fondo può avvenire anche mortis causa, mediante testamento. Il testatore può lasciare ai coniugi uno o più beni gravati dal vincolo del fondo patrimoniale. In questo caso l’accettazione dell’eredità o del legato comporta l’automatica costituzione del vincolo su beni scelti dal testatore, pur essendo necessaria la dichiarazione dei coniugi di voler costituire il fondo, conseguendo il lascito.
La discrezionalità che le parti hanno nel determinare il contenuto dell’atto costitutivo del fondo incontra dei limiti. Anzitutto, il conferimento dei beni al fondo può essere soggetto a termine o a condizione, e le parti non possono derogare al principio di parità delle quote e di contitolarità degli stessi beni spettanti ai coniugi. Inoltre sono sottratte all’autonomia privata anche le regole di amministrazione del patrimonio, in quanto modellate su quelle della comunione legale, nonostante siano previsti dei limitati margini di deroga in virtù dell’art.168 c.c.
Vengono infine escluse le clausole volte ad incidere sulle cause di estinzione del fondo, introducendone quindi di nuove e sopprimendo alcune fra quelle previste dalla legge. In merito alle diverse modalità attraverso cui un fondo patrimoniale può costituirsi distinguiamo tre diverse ipotesi. Qualora la costituzione del fondo avvenga su iniziativa del terzo, quest’ultimo può manifestare la propria volontà mediante atto tra vivi o mediante testamento.
Nel caso di costituzione del fondo da parte di un terzo per atto pubblico inter vivos, siamo davanti ad un negozio plurilaterale che si perfeziona con l’accettazione di entrambi i coniugi fatta per atto pubblico, e che può avvenire anche attraverso un atto pubblico successivo.
Tale sistema pertanto non obbliga il costituente fino a quando la proposta non viene accettata dai coniugi contemplati nell’atto costitutivo, pertanto, fino a quel momento ed in relazione ai principi generali di cui all’art. 1328 c.c., la proposta può esser revocata dal preponente.
Fino a quando non è intervenuta l’accettazione da parte dei coniugi beneficiari, i beni rimangono nella piena e libera disponibilità del terzo, ed è anche prevista l‘eventualità che i coniugi possano rinunciare al loro diritto di accettare la costituzione del fondo patrimoniale da parte del terzo; tuttavia una volta accettato, con relativo perfezionamento dell’atto, non potranno revocare l’accettazione, avvenuta nelle forme di cui all’art. 167 c.c.
Qualora, uno dei coniugi non possa o non voglia prestare il suo consenso, il coniuge che intende perfezionare l’atto può rivolgersi al giudice per richiedere l’idonea autorizzazione, se la stipulazione dell’atto fosse necessaria nell’interesse della famiglia.
Nel caso invece di costituzione del fondo mortis causa, può essere utilizzato qualsiasi tipo di testamento quindi sia il testamento pubblico, sia quello olografo sia il testamento segreto.
La disposizione mortis causa, che prevede la costituzione di un fondo patrimoniale, può consistere in un “legato” (ossia quella disposizione a causa di morte con cui l’autore di un testamento attribuisce ad un soggetto da lui indicato nominativamente, detto legatario, singoli beni a carico dell’eredità), o in una istituzione a titolo universale, purché ovviamente quest’ultima assicuri la determinazione dei beni oggetto del vincolo.
La controversa struttura dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale proveniente dal terzo ha creato opinioni contrastanti.
Secondo l’opinione prevalente, il regime trarrebbe origine da un atto unilaterale del terzo, non reputandosi quindi necessario l’intervento dei coniugi, e facendo venir meno l’ipotesi di una convenzione matrimoniale in senso proprio.
La ratio di tale opinione è da rinvenire nell’art.167 c.c., il quale fa riferimento al testamento come atto idoneo a costituire il fondo senza prevedere una manifestazione di volontà. Secondo invece un’opinione ricorrente, l’eredità collegata al fondo costituirebbe sempre un legato.
Ciò viene spiegato, facendo riferimento al dettato normativo in forza del quale l’atto deve riguardare “determinati beni” immobili, mobili registrati, titoli di credito aventi delle caratteristiche particolari, ritenendo perciò inidoneo l’intero patrimonio o una quota di esso.
Tuttavia tale tesi appare riduttiva, pertanto si deve ritenere che la costituzione del fondo possa scaturire sia da un lascito ereditario, sia da un legato a favore dei due coniugi. La disposizione testamentaria ha quindi una duplice funzione: è sia un negozio unilaterale di attribuzione dei beni ai coniugi, ma è anche una manifestazione di volontà che tali beni costituiscano oggetto del fondo patrimoniale.
Tuttavia i due istituti rimangono autonomi e soggetti a diverse discipline; il lascito sarà sottoposto alle norme successorie, mentre la costituzione del fondo sarà sottoposta alle norme sulla convenzione matrimoniale e i soggetti costituenti saranno solo i coniugi.
Lo stretto legame che intercorre tra il negozio di dotazione dei beni e quello di costituzione del fondo, comporta infatti che la mancanza di quest’ultimo si ripercuota sull’efficacia del primo, quindi dal sorgere del regime convenzionale dipende l’acquisto successorio. Infine, dovendo la disposizione testamentaria far necessariamente riferimento ad un determinato matrimonio (già celebrato o da celebrarsi), il fondo perderà la sua efficacia se il matrimonio non persiste al momento dell’apertura del testamento.
Un’ulteriore modalità di costituzione del fondo patrimoniale, è quella posta in essere con riserva di proprietà. La proprietà dei beni costituiti, se non è diversamente stabilito, spetta ad entrambi i coniugi; infatti dalla serie dei possibili assetti proprietari dei beni stessi, secondo una tesi oggi considerata minoritaria, andrebbe esclusa la riserva di proprietà a favore dei terzi costituenti, con conseguente assegnazione in fondo del mero godimento del bene.
Questa impostazione ritiene che la riserva di proprietà a favore dei terzi costituenti non è consentita perché ritenuta incompatibile con la legittimazione di entrambi i coniugi a disporne, ma soprattutto con la disciplina dell’intervento giudiziale alla cessazione della convenzione in presenza dei figli minori.
In quest’ultima ipotesi, in virtù dell’art.171 co.3 c.c., è previsto che “considerate le condizioni economiche dei genitori e dei figli ed ogni altra circostanza, può attribuire ai figli, in godimento o in proprietà, una quota dei beni del fondo”; pertanto il mero godimento contrasterebbe con le previsioni normative e renderebbe vana la funzione di garanzia del fondo, poiché i terzi non potrebbero aggredirlo in caso di inadempimento di obbligazioni contratte dai coniugi per i bisogni della famiglia.
Questa impostazione è stato oggetto di critiche da parte della prevalente dottrina, la quale ha riscontrato che è implicita nel sistema, la possibilità che la proprietà sia attribuita anche ai figli dei coniugi apparendo quindi contraddittoria la tesi dell’inammissibilità di una pari riserva in favore del terzo, non cogliendosi quale sia la differenza giuridica tra il terzo costituente che si sia riservato la proprietà e l’ipotesi in cui quest’ultimo, o uno o entrambi i coniugi conferiscano il godimento di alcuni beni in fondo riservando la proprietà ai figli dei coniugi stessi.
In ogni caso dall’esame dell’art.171 c.c. emerge l’attribuibilità da parte del giudice, in sede di scioglimento del fondo, di una quota dei beni del fondo stesso ai figli minori in modo alternativo o in proprietà o in diritto di godimento.
Questa scelta giudiziale è possibile solo qualora sia stata conferita la piena proprietà, perché altrimenti, se dal fondo patrimoniale sia stato attributo ai coniugi il mero godimento, resta concedibile ai figli solo quest’ultimo.
Per cui, tenendo presente l’inciso del co.1 dell’art.168 c.c. in cui si precisa che la proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi “salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione”, si riconosce tale affermazione come ipotesi “normale” o “ordinaria” senza però precludere modalità diverse della titolarità dei beni conferiti.
In questo modo, l’art. 168 c.c. permette che la destinazione familiare del fondo possa avvenire sia in modo pieno ed ampio con il conferimento della piena proprietà, sia in modo più limitato con l’attribuzione del mero godimento.
La dottrina ha anche riscontrato molteplici difficoltà nella ricostruzione del diritto spettante ai coniugi sui beni del fondo patrimoniale, qualora non ne abbiano anche la proprietà. Se quest’ultima è riservata a persone diverse dai coniugi stessi, a quest’ultimi viene accordato il mero diritto godimento sul fondo finalizzato ai bisogni della famiglia.
In questa prospettiva, è possibile accostare quest’ultimo all’usufrutto; anzi più precisamente per alcuni si tratterebbe di co-usufrutto, costituito in capo ad entrambi i coniugi e gravato da vincoli particolari, secondo altri invece il diritto di godimento non è omologabile all’usufrutto ordinario, ma andrebbe assimilato all’usufrutto legale dei genitori.
Un’ulteriore posizione considera tale situazione giuridica come “usufrutto di scopo”, per evidenziare lo stretto legame tra il diritto dei coniugi sui beni costituiti il fondo patrimoniale ed il vincolo di destinazione familiare che intacca i beni stessi. L’inquadramento categoriale del diritto di godimento sui beni del fondo, lascia ancora oggi ampi margini di incertezza e di dubbio.
3.2. Pubblicità del fondo patrimoniale
Nel codice del 1942, la pubblicità delle convenzioni matrimoniali (dote, patrimonio familiare, comunione dei beni) era affidata quasi esclusivamente all’istituto della trascrizione e riguardava beni immobili o mobili registrati.
Un’eccezione era prevista in caso di titoli di credito, conferiti in patrimonio familiare, in cui la pubblicità del vincolo avveniva mediante apposita annotazione sul titolo stesso e nel registro dell’emittente. Tuttavia era presente una grave lacuna data dalla mancanza di forme di pubblicità riguardanti la convenzione in sé, la quale si manifestava quando nel regime convenzionale erano presenti beni mobili, non soggetti a pubblicità del vincolo, e con conseguente inopponibilità dello stesso ai terzi di buona fede.
Questo inconveniente è stato risolto dalla riforma del 1975 che ha introdotto una forma di pubblicità delle convenzioni, a pena di inopponibilità ai terzi, da effettuarsi mediante annotazione a margine dell’atto di matrimonio, seppur ancora richiesta dall’art. 2647 è la trascrizione nei registri immobiliari del vincolo del fondo patrimoniale; l’art. 2647 c.c. prevede infatti, l’obbligo di trascrizione dell’atto costitutivo per quanto riguarda i conferimenti di beni immobili. In dottrina si è dibattuto sul valore di tale trascrizione, ovvero se debba considerarsi come mera pubblicità – notizia o abbia un valore dichiarativo.
All’origine di tanta incertezza vi è la non chiara formulazione della norma sopracitata. Infatti a seguito della riforma del diritto di famiglia, è stato abrogato l’ultimo comma dell’art. 2647 c.c. con il quale veniva sancita l’inopponibilità ai terzi del vincolo non trascritto.
Nel silenzio dell’attuale formulazione normativa, la dottrina prevalente e la giurisprudenza di legittimità, ritenendo che la costituzione del fondo patrimoniale sia da considerarsi una convenzione matrimoniale, ne fanno discendere anche l’applicazione automatica della disciplina prevista dall’art. 162 c.c. per la pubblicità.
Di conseguenza, l’opponibilità ai terzi del vincolo deriverebbe dall’annotazione a margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo svolgerebbe esclusivamente un ruolo di pubblicità-notizia.
Altra parte della dottrina, al contrario, attribuisce alla pubblicità relativa ai beni del fondo funzione dichiarativa, ritenendo che essa debba affiancarsi all’annotazione a margine dell’atto di matrimonio; in tal modo, dalla prima deriverebbe l’opponibilità ai terzi del vincolo del fondo, dalla seconda, invece, l’opponibilità del contenuto della convenzione, “stabilito dalle parti, anche apportando deroghe, per quanto consentito, alla disciplina legale”.
Sulla questione è intervenuta, di recente, la Suprema Corte, con pronuncia a Sezioni Unite, chiarendo che la costituzione del fondo patrimoniale deve essere considerata una convenzione matrimoniale; di conseguenza, è soggetta, oltre alla trascrizione nei registri immobiliari ai sensi dell’articolo 2647 c.c., anche all’annotazione nei registri di stato civile ai sensi dell’artico 162 c.c.
Queste due forme di pubblicità hanno finalità e funzioni diverse: entrambe le forme sono quindi necessarie, insostituibili e non equivalenti. In particolare, l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio ha la finalità di rendere opponibile ai terzi il fondo patrimoniale, mentre la trascrizione ha una mera funzione di pubblicità-notizia.
Il primo argomento dei Giudici di legittimità si è basato sull’elemento normativo testuale contenuto nell’art. 162 c.c., il quale richiede espressamente l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio affinché le convenzioni matrimoniali possano essere opposte ai terzi.
La seconda argomentazione impiegata dalle Sezioni Unite è stata di ordine storico: è stato infatti rilevato come la Legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia) abbia abrogato il comma 4 dell’art. 2647 c.c., il quale prevedeva che i vincoli derivanti da convenzioni matrimoniali non potessero essere opposti ai terzi in mancanza di trascrizione.
In terzo luogo, il Collegio ha supportato l’assunto secondo cui, quando il legislatore ha inteso conferire ad una norma la natura di pubblicità dichiarativa, lo ha fatto espressamente, mentre laddove, come nel caso di specie, la legge non ricollega alla trascrizione un particolare effetto ben determinato, si è in presenza di un’ipotesi di pubblicità notizia.
Il quarto argomento impiegato dalla Suprema Corte è stato di carattere teleologico, entrando in gioco la tutela dei terzi che pongono in essere rapporti giuridici con i coniugi. L’ultima argomentazione è stata, invece,di tipo sistematico: anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 111 del 6 aprile 1995, avrebbe difatti avvallato l’interpretazione prospettata dalla Cassazione.
Una recentissima pronuncia dei giudici di legittimità ha confermato l’impostazione delle Sezioni Unite, aggiungendo un particolare ulteriore, ovvero indicando cosa deve fare il titolare del fondo per proteggere i beni compresi nel fondo da un pignoramento.
Infatti, diretta conseguenza di quanto affermato è il principio secondo il quale quando il soggetto che ha costituito il fondo patrimoniale propone contro il creditore che voglia procedere su un bene facente parte del fondo l’opposizione di cui all’art. 615 c.p.c. (riconducibile all’ambito della c.d. opposizione all’esecuzione per impignorabilità del bene), non deve solo provare l’esistenza del fondo (quindi non deve solo produrre l’atto costitutivo del fondo), ma è tenuto ad allegare, quale fatto costitutivo della domanda di accertamento dell’inesistenza della pignorabilità, il fatto dell’annotazione della costituzione nell’atto matrimoniale, inerendo esso alla enunciazione dei fatti giustificativi della impignorabilità.
In assenza del certificato, l’opposizione non può essere accolta ed è rilevabile d’ufficio la mancata allegazione del certificato di matrimonio nonché l’eventuale assenza dell’annotazione a margine dell’atto di matrimonio della costituzione del fondo patrimoniale.
4. La gestione del fondo patrimoniale
Prima della riforma del 1975 l’amministrazione dei beni costituiti in patrimonio familiare era disciplinata dagli artt.173, 174 e 176 c.c.
Oggi la principale innovazione che è stata introdotta attiene alla contitolarità necessaria del potere di amministrazione, il quale prescinde dalla titolarità dei beni del fondo.
La disciplina del sistema di amministrazione dei beni conferiti al fondo è caratterizzata da un rinvio generale alle norme sulla comunione legale, contenute nell’art.168 co.3 c.c..
Con il termine amministrare si suole intendere la gestione che comprende tutti gli atti di disposizione dei beni, quali la conservazione, l’utilizzo diretto, la fruttificazione, la concessione a terzi di diritti di godimento e di garanzia, l’alienazione.
Dal combinato disposto dell’artt. 168 co. 3 e 180 c.c., si desume che l’amministrazione dei beni del fondo spetta ad entrambi i coniugi, indipendentemente dalla effettiva titolarità dei beni. Più precisamente, la gestione dei beni conferiti in fondo spetta ad entrambi i coniugi disgiuntamente per gli atti d’ordinaria amministrazione, nel senso che l’atto può essere compiuto da uno qualsiasi dei coniugi, senza l’intervento o l’autorizzazione dell’altro e congiuntamente per gli atti di straordinaria amministrazione.
La titolarità dei beni oggetto del fondo non incide sull’amministrazione che spetta in ogni caso ad entrambi i coniugi secondo le regole della comunione legale. Tale separazione fra amministrazione e titolarità permette di sottolineare l’autonomia patrimoniale del fondo costituito rispetto a ciò che possiede ciascun coniuge conferente.
La riforma del 1975 nel rispetto del principio della parità coniugale, segna un inversione di tendenza rispetto alla precedente normativa del Codice del 1942. Infatti, quest’ultimo prevedeva che la titolarità dell’amministrazione venisse attribuita sulla base di criteri oggi abbandonati.
La riforma del 1975 fonda la sua disciplina sulla regola della contitolarità dell’amministrazione dei coniugi e sull’inderogabilità della regola stessa nel rispetto dell’art. 3 e 29 della costituzione. I principi che disciplinano l’esercizio dei poteri di amministrazione da parte dei coniugi sono contenuti negli artt. 180-184 c.c e 169 c.c..
La regola generale dispone che i coniugi possano agire disgiuntamente per l’ordinaria amministrazione, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione e per la stipulazione dei contratti con i quali si concedono diritti personali di godimento è prevista la regola dell’agire congiunto.
Questa distinzione non si applica agli atti indicati nell’art.169 c.c. ossia quelli volti ad alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare i beni del fondo, per i quali, oltre al consenso di entrambi i coniugi, può essere anche necessaria l’autorizzazione del giudice quando vi siano figli minori; tuttavia all’autonomia privata è concessa la facoltà di derogare a tale disciplina, potendo i coniugi prevedere, nell’atto costitutivo del fondo, che gli atti elencati nell’art.169 c.c. siano realizzati da un solo coniuge.
A tal proposito è pacificamente ammesso che i coniugi possano derogare, nell’atto costitutivo, alla regola di amministrazione congiuntiva, non intendendosi come gestione dei beni affidata ad uno solo dei coniugi, ma piuttosto il significato della deroga attiene al tipo di amministrazione, che può diventare disgiuntiva (per accordo dei coniugi) per determinati atti di straordinaria amministrazione; pertanto ciascuno dei coniugi potrà compiere da solo gli atti di alienazione o di imposizione di vincoli, per i quali non viene violato il principio di parità all’interno della famiglia.
Tale deroga non può essere estesa a tutti gli atti di straordinaria di amministrazione del fondo, in quanto è inequivocabile la volontà del legislatore, il quale ha elencato in modo specifico gli atti per i quali la stessa è ammessa. Se non viene diversamente stabilito, entrambi i coniugi hanno la facoltà di disporre disgiuntamente di tutti i beni nell’ambito del diritto attribuito al fondo, e ciò risulta coerente con il regime di amministrazione paritario della comunione legale applicabile al fondo in virtù dell’art.168 co.3 c.c.
Inoltre anche nei casi in cui non è necessaria l’autorizzazione giudiziale, sussiste per i coniugi l’obbligo del reimpiego del prezzo vincolato ai bisogni della famiglia . Infatti il vincolo di destinazione non cessa con l’alienazione del bene, ma si trasferisce sul bene sostituito, o sul ricavato che andrà impiegato per soddisfare le necessità familiari o per acquistare nuovi beni da inserire nel fondo.
Il controllo giudiziale previsto dall’art.169 c.c. identifica un’ipotesi autorizzativa che non è prevista nell’interesse generale, ma a tutela dell’interesse dei figli minori e si riconduce pertanto nell’ambito delle autorizzazioni tutorie.
L’interesse che deve essere tutelato non è l’interesse diretto dei minori alla corretta amministrazione del proprio patrimonio da parte dei genitori, ma un interesse indiretto affinché i beni del fondo vengano utilizzati per i bisogni della famiglia e che vengano correttamente amministrati.
Questo controllo giudiziale è quindi giustificato dal fatto che si tratta di atti che possono incidere in maniera rilevante sulla consistenza del fondo e alterandone la composizione.
Rimane tuttavia incerto se sia possibile derogare nell’atto costitutivo alla necessità di autorizzazione giudiziale in caso di figli minori. La dottrina più rigorosa nega la possibilità di abolire il controllo giudiziale, poiché l’autorità giudiziale deve garantire un interesse superiore, ossia quello dei figli minori, al rispetto della destinazione del fondo patrimoniale al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, in contrapposizione ai bisogni personali dei coniugi.
E’ di opinione parzialmente diversa la Corte di Cassazione, la quale ha ammesso la possibilità per i coniugi di convenire nell’atto costitutivo del fondo una esclusione della necessità di richiedere l’autorizzazione giudiziale per l’alienazione dei beni in esso costituiti, fatto salvo in ogni caso il requisito della necessità e dell’utilità evidente.
La lettera dell’art.169 c.c. non lascia adito a dubbi interpretativi, risultando chiara la volontà del legislatore di consentire la deroga all’autorizzazione giudiziale. La giurisprudenza di legittimità ha però precisato che ciò non significa che i coniugi sono liberi di disporre dei beni del fondo secondo la loro volontà, poiché non viene meno l’obbligo di utilizzo secondo i bisogni della famiglia, compreso l’interesse del minore.
E’ stato poi sollevato il problema se fosse necessaria l’autorizzazione giudiziale nel caso in cui vi siano figli nascituri già concepiti al momento in cui l’atto è compiuto. In linea di principio, per garantire un maggior controllo sull’operato del coniuge, l’autorizzazione giudiziale preventiva, rispetto all’atto da compiersi, si manifesta anche in presenza di un nascituro già concepito.
Poiché è necessario tutelare il terzo ignaro dell’esistenza del nascituro, l’atto stipulato dal terzo in buona fede è da ritenersi valido anche in mancanza della autorizzazione giudiziale. Non sembra invece possibile estendere quest’ultima anche a salvaguardia dei figli che potranno nascere in futuro, ma che non sono ancora stati concepiti.
4.1. Atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione
Vengono considerati atti di ordinaria amministrazione i normali atti di gestione del patrimonio. La natura di tali atti può variare in relazione all’oggetto della gestione, e trattarsi di singoli beni o di un intero patrimonio, ma può mutare anche in relazione alle caratteristiche, alla titolarità e alla consistenza del patrimonio stesso.
Gli atti di ordinaria amministrazione garantiscono dunque il corrente esercizio del patrimonio stesso comportando il sorgere di obbligazioni atte a soddisfare i normali bisogni di vita della famiglia; sono invece reputati atti di straordinaria amministrazione, quelli volti a cambiare la destinazione economica dei beni, le obbligazioni contratte per le riparazioni straordinarie, alle quali non si può provvedere con i frutti e tutte quelle stipulate per far fronte ad esigenze eccezionali della famiglia, quindi in sostanza tutti gli atti che comportano un mutamento al normale godimento del patrimonio stesso o dell’assetto familiare.
Per gli atti di amministrazione ordinaria non è necessario che i coniugi agiscano congiuntamente, il che equivale a dire che è sufficiente il consenso di uno solo dei coniugi. Tuttavia principio generale dell’ordinamento, valido in tutte le ipotesi in cui l’amministrazione spetta a più soggetti, è quello secondo cui un amministratore può sempre opporsi all’atto che un altro sta per compiere.
Qualora il coniuge dissenziente abbia manifestato la sua opposizione, l’altro non è più legittimato al compimento dell’atto che, sebbene valido nei confronti dei terzi, potrà dare luogo a responsabilità nei rapporti interni fra gli sposi. Si è dibattuto sulle modalità che possono consentire all’altro coniuge di venire a conoscenza dell’atto che sta per essere compiuto, in modo da poter esercitare la propria influenza.
Alcuni autori hanno proposto un modello simile a quello societario, per cui dovrebbe essere data preventiva informazione all’altro coniuge, ma tale soluzione non appare condivisibile perché finirebbe per richiedere anche per questi atti, la necessità del previo accordo dei coniugi. Si ritiene dunque che non esista un obbligo di preventiva informazione, salvo che per quegli atti di ordinaria amministrazione che abbiano un incidenza maggiore sul governo della famiglia.
Ciò esprime un principio di prudenza nell’amministrazione, la cui operatività è rimessa all’apprezzamento dei coniugi e che potrà rilevare anche dal punto di vista della responsabilità della gestione. Uno dei coniugi può validamente compiere, con piena efficacia verso i terzi, atti di ordinaria amministrazione relativi ai beni del fondo indipendentemente e contro la volontà dell’altro coniuge.
Tuttavia per garantire una piena tutela del coniuge dissenziente, questo può opporre l’inefficacia dell’atto, qualora abbia manifestato il suo dissenso anche all’altro contraente. Per quanto riguarda invece gli atti di straordinaria amministrazione, la legge prevede la gestione congiunta, ed è pertanto richiesto il consenso di entrambi gli sposi. Il singolo coniuge tuttavia non è privo del potere di compiere l’atto, infatti la conseguenza della mancata partecipazione di entrambi è una mera irregolarità, e non l’inefficacia dell’atto.
Gli atti di straordinaria amministrazione per il fondo patrimoniale per i quali è prevista la gestione congiuntiva comprendono non solo l’art.180 co 2 c.c., ma anche l’art.169 c.c. Si distinguono dunque tra gli atti che non possono essere compiuti se non con il consenso di entrambi i coniugi, gli atti di alienazione o di disposizione dei beni o di sottoposizione a vincoli reali, per i quali, oltre al consenso di entrambi i coniugi, può essere necessaria l’autorizzazione del giudice quando vi siano figli minori.
Il costituente può conferire al fondo un diritto di godimento analogo all’usufrutto legale in virtù della sua funzionalizzazione ai bisogni della famiglia.
Data l’analogia di contenuto con l’usufrutto legale, i coniugi possono fare propri i frutti e le altre utilità derivanti dai beni, ma a differenza di quest’ultimo non possono mutarne la destinazione. I coniugi titolari del diritto di godimento, sono soggetti agli stessi obblighi previsti per l’usufruttuario consistenti nell’obbligo di inventario,salvo espressa dispensa, e nell’obbligo di prestare idonea garanzia. Se il diritto di godimento è conferito da un terzo, si manifestano le stesse esigenze di tutela del nudo proprietario, pertanto l’usufruttuario è tenuto a dare idonea garanzia e procedere alla redazione dell’inventario. Mentre se lo stesso diritto è conferito da uno dei coniugi, il quale si riserva la nuda proprietà, l’onere della garanzia grava solo sull’altro coniuge.
4.2. La responsabilità dei coniugi nell’amministrazione del fondo
Di fronte agli aspetti salienti relativi alla disciplina dell’amministrazione del fondo patrimoniale, delineata attraverso il richiamo alle norme sulla comunione legale (art. 168, comma 3, c.c.) ed alla disciplina specifica degli atti di alienazione (art. 169, c.c.) è necessario non trascurare l’elemento essenziale che lo caratterizza, ossia la finalità a cui i suoi beni ed i suoi frutti devono essere destinati.
Ciò significa che, diversamente da quanto accade nell’ambito della comunione legale, la gestione dei beni del fondo patrimoniale non può avvenire in maniera arbitraria da parte dei coniugi poiché, anche nel caso in cui manchino i figli minori, deve sempre essere rispettata la destinazione funzionale dei beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
Nella prassi i soggetti maggiormente danneggiati da una scorretta gestione del fondo non sono i figli, bensì i terzi creditori “non familiari”, i quali vedono pregiudicate le proprie aspettative patrimoniali senza che i coniugi debitori vadano incontro ad un effettivo restringimento del potere di disposizione dei beni costituiti in fondo patrimoniale. Sono previsti degli strumenti di tutela in capo a questi creditori pregiudicati dalla costituzione di un fondo patrimoniale, di cui non vengono rispettate le regole. Uno dei rimedi, è quello dell’azione revocatoria.
Repertori giurisprudenziali degli ultimi anni dimostrano un ampio utilizzo di tale rimedio, testimoniando che il principale interesse pratico del fondo è quello di frapporre uno schermo alla responsabilità patrimoniale. Un altro strumento ipotizzabile per la tutela dei terzi è l’azione di simulazione, espressamente prevista in materia di convenzioni matrimoniali dall’art.164 c.c., e oggi dimostrabile dai terzi con ogni mezzo.
Non si ritiene invece esperibile, dai terzi, il rimedio relativo all’ invalidazione dell’atto di gestione irregolare, poiché i terzi che trovano la propria tutela nel fondo, in qualità di creditori familiari, potrebbero avere interesse all’invalidazione dell’atto che provochi il depauperamento del fondo e che sia non conforme alle regole di amministrazione.
Gli atti patologici di amministrazione possono essere distinti in tre grandi gruppi, i quali non sono necessariamente alternativi: alcuni atti presentano un’irregolarità genetica, in quanto vengono formati senza il necessario consenso di tutte le parti interessate; altri si caratterizzano per un’ irregolarità procedimentale, nel senso che vengono effettuati senza il rispetto delle regole formali proposte alla loro formalizzazione; altri ancora si caratterizzano, invece perché sono formalmente regolari, ma perseguono un fine “deviato”, diverso da quello per cui viene costituito il fondo patrimoniale.
In questo ultimo caso la patologia non è interna all’atto, ma si manifesta nei suoi effetti. Può accadere che un coniuge si trovi nell’impossibilità giuridica o di fatto, di amministrare o che abbia male amministrato.
Gli art 182 e 183 c.c., prevedono due ipotesi: La prima attiene al caso in cui un coniuge sia impedito ad amministrare, con conseguente attribuzione all’altro dei relativi poteri; la seconda riguarda i casi di esclusione del coniuge dall’amministrazione stessa.
Il provvedimento di esclusione non ha solo fini sanzionatori, ma presenta anche aspetti di natura preventiva. Tale rimedio è nella disponibilità dell’altro coniuge, il quale può ricorrere in alternativa alla misura più radicale dello scioglimento della comunione ex art. 193.
L’esclusione risponde ad una finalità di prevenzione di futuri pregiudizi, piuttosto che sanzionatoria, sicché gli atti di cattiva gestione vengono in considerazione come indici della “pericolosità” del coniuge per le sorti della comunione e del rischio di ulteriori pregiudizi futuri.
Nei casi di impossibilità o di mala gestione di uno dei coniugi,l’altro può compiere, previa autorizzazione del giudice, gli atti necessari per i quali è richiesto il consenso di entrambi i coniugi. Si tratta di un’autorizzazione su singoli atti ritenuti necessari per l’interesse della famiglia che dovrebbe essere concessa dal giudice, qualora la situazione familiare o del patrimonio rende probabile la stipulazione di una serie di atti straordinari, necessari nel periodo di durata dell’impedimento del coniuge.
Il ricorso all’autorizzazione giudiziale previsto dall’art.182, non è necessario se il coniuge impedito aveva già rilasciato una procura per il compimento di atti compresi nella straordinaria amministrazione della comunione legale.
L’ammissibilità della procura, è stata oggetto di numerose perplessità. Occorre pertanto verificare se il compimento, da parte di un solo coniuge, di atti di straordinaria amministrazione possa derivare anche dall’iniziativa rilasciata dall’altro coniuge oltre che dalla legge o da autorizzazione giudiziale.
Parte della dottrina ammette il conferimento all’altro coniuge anche di una procura generale, non considerando la presenza di un impedimento ad amministrare, perché il rilascio di tale procura non contrasterebbe con il divieto posto ai coniugi dall’art.210 co.3 c.c. ossia quello di alterare l’equilibrio dei poteri di amministrazione della comunione legale.
Con tale atto il coniuge rappresentato continuerebbe ad esercitare i suoi poteri di gestione per mezzo dell’altro coniuge, controllandone l’operato con facoltà di revocabilità della procura stessa. Altra parte della dottrina ritiene invece ammissibile la procura speciale, mentre ammette la procura generale solo nei casi di lontananza o per l’esistenza di un altro impedimento, poiché in questi casi la prima sarebbe inadeguata in quanto presuppone la preventiva conoscenza da parte del rappresentato, dell’atto o degli atti che il rappresentante poteva compiere.
Tuttavia questo tipo di conoscenza è oggi difficilmente ipotizzabile, dato che l’amministrazione è destinata a protrarsi nel tempo. La soluzione al problema dipende pertanto dall’interpretazione che viene data al principio normativo secondo il quale l’amministrazione del fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi.
Oggi dunque l’ordinamento attribuisce ai coniugi la titolarità dell’amministrazione, consentendo una delega più o meno ampia dell’esercizio dei poteri ad un altro soggetto o che detto esercizio debba avvenire ad opera del titolare.
Il nostro ordinamento con l’art.183 enuncia una serie di cause di esclusione dall’amministrazione del fondo patrimoniale per uno dei due coniugi, tra le quali rientrano: la minore età, l’interdizione, l’impedimento ad amministrare e la cattiva amministrazione. Tale norma ha dato vita ad un vasto dibattito dottrinario teso a precisare l’esatta portata di quest’ultime e la loro tassatività o meno.
Tali cause operano in seguito ad un apposita dichiarazione giudiziale, ad eccezione dell’interdizione, la cui pronuncia provoca automaticamente l’esclusione dell’incapace dall’amministrazione. L’esclusione dall’amministrazione del fondo patrimoniale priva il coniuge di una potestà strettamente collegata al suo ruolo all’interno della famiglia, soprattutto in presenza dei figli. Si tratta di un atto giudiziale che incontra numerose difficoltà nell’accertamento dei presupposti.
Un primo problema che si deve affrontare, in merito all’esclusione di un coniuge dall’amministrazione, è quello relativo ai poteri dell’altro coniuge, più precisamente se quest’ultimo concentri in sé tutti i poteri di gestione del fondo, o se per gli atti di amministrazione straordinaria la sua volontà debba essere integrata dall’autorizzazione giudiziale. La maggior parte degli autori , propende per la prima tesi, rilevando la gravità della sanzione comminata ai sensi dell’art.183 c.c.
Tale tesi considera il fatto che altrimenti vi sarebbe intralcio al compimento degli atti gestori della famiglia e che in materia coniugale vale il principio per cui la gestione degli affari comuni deve essere lasciata nell’ambito del nucleo familiare, senza interferenze esterne. Altri autori ritengono che sopravviva il criterio di amministrazione congiuntiva, per cui il coniuge non escluso, dovrà chiedere l’autorizzazione giudiziale ex art.182, per gli atti di straordinaria amministrazione.
Non risulta che tale norma abbia mai avuto concreta applicazione pratica, tuttavia si rinviene che il coniuge escluso non potrà più ne compiere, da solo, atti di ordinaria amministrazione, ne concorrere per il perfezionamento degli atti di straordinaria amministrazione posti in essere dal partner, per i quali è richiesto il consenso del rappresentante legale o volontario dell’altro coniuge o l’autorizzazione giudiziale ex art. 182 c.c.
Infine di recente è stata proposta una nuova teoria, la quale attribuisce al giudice il potere di tracciare i punti delle prerogative del coniuge che rimane investito della gestione. Lo stesso provvedimento di esclusione potrebbe concedere piena autonomia nell’amministrazione al coniuge rimasto a gestire, potrebbe imporre cautele e nominare un curatore, che si affiancherebbe al coniuge dell’escluso nel compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.
La mancanza di un coniuge come amministratore non è considerata causa di scioglimento del fondo, sia qualora vi fossero figli minori contro i quali finirebbero con il ritorcersi l’estinzione del fondo essendo essi interessati alla sua continuazione, e sia qualora manchino i figli minori. I provvedimenti di esclusione di uno o di entrambi i coniugi dall’amministrazione sono di competenza del tribunale ordinario del luogo di residenza del coniuge convenuto, ossia di colui nei cui confronti viene emesso.
Tali provvedimenti possono essere revocati dal giudice qualora venga meno la causa che costitutiva il fondamento ad eccezione della revoca dell’interdizione ed il raggiungimento della maggiore età da parte del coniuge incapace di intendere e di volere che comportano l’automatica reintegrazione dei poteri del coniuge escluso e la decadenza del terzo amministratore eventualmente nominato.
La legittimazione a chiedere tale provvedimento spetta, in virtù dell’art. 183 c.c., al coniuge che chiede l’esclusione. Nonostante l’applicazione analogica dell’art.171 co 2 c.c., in base al quale chiunque fosse interessato può chiedere al giudice provvedimenti per l’amministrazione del fondo, fa ritenere che interessati possano essere i figli maggiorenni, non ancora autonomi matrimonialmente, i minorenni tramite il rappresentante legale ed il terzo costituente il fondo; anche i figli, pur privi di diritti dominicali sui beni del fondo, potranno avvalersi contro i genitori inadempienti dei mezzi di reazione consentiti dall’ordinamento, agendo personalmente una volta raggiunta la maggiore età, o anche prima per mezzo di un curatore speciale.
Inoltre anche in mancanza attuale di figli, chiunque, ed specialmente il terzo che abbia costituito il fondo, può pretendere l’iniziativa per l’irrogazione di una sanzione nei confronti dei coniugi ciò crea incertezza circa la possibilità di individuare altri legittimati per la gestione del fondo. Qualsiasi violazione delle norme che regolano l’amministrazione del fondo patrimoniale comporta l’abusività degli atti compiuti.
Ciò si verifica ogni volta che un coniuge compia da sola un atto per il quale è invece necessario il consenso di entrambi, o compia un atto di ordinaria amministrazione per il quale l’altro coniuge avesse manifestato la sua opposizione, oppure quando l’atto non sia stato autorizzato dal giudice, nonché gli atti compiuti dai coniugi ma con finalità diverse dal soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
Con lo stesso procedimento il coniuge escluso può richiede di essere reintegrato. Gli effetti che derivano da tali violazioni sono piuttosto controverse, poiché le norme sul fondo patrimoniale non contengono disposizioni specifiche in merito. Nel caso in cui è necessario l’agire congiunto, ma manca il consenso di un coniuge, la dottrina prevalente non ritiene applicabile la disciplina prevista dall’art.184 c.c. per la comunione legale.
E’ stato anche riscontrato che l’art.184 c.c. non esaurisce tutti gli atti dell’amministrazione abusiva; esso si riferisce ad atti relativi ai beni immobili, mobili registrati o a beni mobili, ma vi sono atti di amministrazione che consistono nell’assunzione di un’obbligazione e non riguardano un particolare bene. In quest’ultimi casi è necessario far riferimento al combinato disposto degli artt. 186 e 189 c.c., secondo i quali gli atti risultano inefficaci per il coniuge che non ha assunto l’obbligazione, mentre il coniuge contraente risponderà verso il creditore con l’intero patrimonio personale e con la propria quota di beni comuni.
Stessa situazione si ha riguardo all’amministrazione del fondo, per cui dell’obbligazione contratta abusivamente risponderà, verso il creditore, il coniuge contraente, con il patrimonio personale compresa la sua quota di comunione legale e con la sua quota di beni del fondo, senza però coinvolgere i beni dell’altro coniuge.
Le violazioni dei doveri di buona amministrazione, previsti dal codice civile, in quanto integrano comportamenti illeciti, obbligano colui che le ha commesse a risarcire il conseguente danno patrimoniale. Il coniuge che ha compiuto l’atto senza il necessario consenso dell’altro può essere obbligato da quest’ultimo a ripristinare la consistenza patrimoniale anteriore.
La reintegrazione deve essere in forma specifica. Qualora quest’ultima non sarà possibile,il coniuge sarà tenuto a reintegrare la comunione per equivalente, pagando una somma di denaro corrispondente al valore dell’entità sottratta alla comunione. Inoltre ogni domanda di ricostituzione o risarcimento è destinata al fallimento tutte le volte in cui il coniuge alienante non abbia beni personali sufficienti.
4.3. I frutti
L’art. 820 del codice civile distingue i frutti in: frutti naturali, ossia quelli che provengono direttamente dalla cosa, vi concorra o no l’opera dell’uomo (es. prodotti agricoli). Qui finché non avviene la separazione, i frutti formano parte della cosa.
Si può tuttavia disporre di essi come di una cosa mobile futura; frutti civili, ossia quelli che ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia (es. rendite vitalizie). I frutti naturali appartengono al proprietario della cosa che li produce, salvo che la loro proprietà sia attribuita ad altri. In quest’ultimo caso la proprietà si acquista con la separazione.
I frutti civili invece, si acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto. In altri termini, i frutti della prima specie sono in genere nuovi beni, che originano dalla cosa madre, mentre i frutti civili sono privi di una connotazione reale, essendo contraddistinti da una rilevanza esclusivamente giuridica. E’ stato sostenuto che i frutti pur essendo costituiti da somme di denaro o da beni mobili, entrano a far parte automaticamente del fondo, e ad essi si applica la disciplina della cosa madre. Pertanto anche per essi, vige a carico dei coniugi, l’obbligo di impiego per il soddisfacimento dei bisogni familiari.
Per chi sostiene ciò non appare condivisibile la tesi per cui il coniuge può conferire un bene al fondo, pur mantenendone la proprietà esclusiva. In tal caso, ci si riferisce in realtà al coniuge che costituisce anche a favore dell’altro un diritto di godimento. La tesi non può essere accolta perché attribuisce la proprietà dei frutti in capo al coniuge che si riserva la nuda proprietà. Qualora sia stato attribuito al fondo patrimoniale un diritto di godimento, i frutti maturati in costanza dello stesso saranno assoggettati alla sua particolare destinazione e spetteranno ai titolari del diritto reale in comproprietà.
La regola dell’art.169, secondo la quale il compimento degli atti di disposizione sui beni del fondo richiede comunque l’agire congiunto, a parere di alcuni non si applica ai frutti del fondo. In mancanza del consenso dell’altro coniuge, infatti, un coniuge non potrebbe utilizzare i frutti neppure per soddisfare gli ordinari bisogni di vita, se non ricorrendo alla procedura prevista dall’art.181 c.c.
Tale ipotesi non ha alcun appiglio normativo, e non vi sono fondamenti letterari che consentano di escludere alcuni beni del fondo dalla regola di amministrazione congiuntiva. La soluzione va ricercata a monte, escludendo i frutti dall’ambito del fondo patrimoniale.
Tuttavia nonostante non rientrino in codesto, godono in parte della relativa disciplina. I frutti sono vincolati alle necessità della famiglia e sono in espropriabili dai creditori non familiari, ma non posso appartenere al fondo perché non rientrano nelle categorie di legge e non sono suscettibili di adeguate forme di pubblicità. Il legislatore, comprendendo tale l’impossibilità di inserimento, ha però voluto che i frutti contribuissero al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, prevedendolo espressamente. Il vincolo che caratterizza i frutti non ha carattere reale, ma obbligatorio.
Tale vincolo, non potendo essere pubblicizzato, non ha effetto nei confronti dei terzi, ma costituisce un obbligo rivolto agli amministratori del fondo, che vale a delimitare l’ambito di responsabilità gestoria.
5. Il fondo patrimoniale e la tutela dei creditori: il concetto di “bisogni familiari” e le obbligazioni garantite dal fondo
Il fondo patrimoniale è costituito da beni vincolati al soddisfacimento dei bisogni del nucleo familiare per consentire allo stesso la realizzazione ed il godimento di un tenore di vita tendenzialmente costante nel tempo.
Al fine di garantire e rafforzare la funzione stessa dell’istituto, l’art. 170 c.c. prevede precisi limiti all’esecuzione sui beni e sui frutti del fondo, escludendo l’esecuzione relativamente a quei debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per finalità estranee ai bisogni della famiglia.
Di conseguenza, ai fini della disciplina dell’esecuzione sui beni del fondo assume rilievo determinante l’esatta individuazione del concetto di bisogni della famiglia soddisfatti mediante la costituzione del fondo patrimoniale. La corretta definizione del concetto in esame comporta l’analisi di un aspetto soggettivo ed uno oggettivo; da un lato occorre, infatti, individuare la famiglia a cui ci si riferisce e, in seguito, tracciare i confini di ciò che si intende per “bisogni”.
Dal punto di vista soggettivo, occorre, pertanto, stabilire cosa intenda il legislatore della riforma, quando si riferisce al concetto di famiglia, rimasto inespresso, nel dettare le norme relative al fondo patrimoniale contenute negli artt. da 167 a 171 c.c., laddove in altre situazioni ne ha ben delineato la nozione. E’da ritenere che il riferimento normativo sia rivolto esclusivamente alla famiglia legittima, restando escluse dalla disciplina in esame le convivenze di fatto.
Essa ricomprende, oltre ai coniugi, i figli legittimi, legittimati e adottivi ; ne sono invece esclusi i figli di primo letto e quelli naturali , ad eccezione di quelli conviventi con la famiglia legittima del genitore.
Dal punto di vista oggettivo, invece, è stata accolta una nozione molto ampia di “bisogni familiari” fino a ricomprendervi “anche quelle esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi”; tuttavia, “anche operazioni meramente speculative possono essere ricondotte ai bisogni della famiglia, allorché appaia certo, in punto di fatto, che esse siano state poste in essere al solo fine di impedire un danno sicuro al nucleo familiare”.
In tal modo, si riconosce che i bisogni familiari, tutelati dal fondo patrimoniale, sono, non solo, quelli di “prima necessità”, ma anche quelli di carattere “sociale” derivanti dal concreto indirizzo della vita familiare concordato dai coniugi per effetto delle condizioni economiche e sociali.
Restano escluse dal novero dei bisogni che il fondo è destinato a soddisfare le esigenze potenzialmente dannose o ritenute socialmente immeritevoli di tutela, quelle sorte prima della celebrazione del matrimonio, nonché la gestione e l’incremento del patrimonio personale di ciascun membro del gruppo familiare.
La dottrina maggioritaria ritiene che non sia configurabile un atto costitutivo del fondo patrimoniale in cui si stabilisca, in maniera puntuale, quali bisogni debbano essere soddisfatti con i beni costituiti nel fondo e quali no. In caso contrario, infatti, si verrebbe ad incidere sulla tutela dei creditori, oltre ad invadere la sfera di autonomia riservata esclusivamente ai coniugi.
La giurisprudenza di legittimità, infine, ha ritenuto che l’accertamento relativo alla riconducibilità dei beni alle esigenze della famiglia costituisce accertamento di fatto, istituzionalmente rimesso al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione.
5.1. L’esecuzione sui beni del fondo
Come si è detto poc’anzi, l’art. 170 c.c. prevede un’inespropriabilità relativa dei beni del fondo, escludendo l’esecuzione relativamente a quei debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per finalità estranee ai bisogni della famiglia.
Di conseguenza, ai fini dell’esecuzione sui beni del fondo, i crediti, con riferimento alla loro causa, possono essere distinti in due diverse tipologie, ovvero crediti “contratti” per bisogni della famiglia e crediti con causa estranea a detti bisogni; inoltre, il vincolo di inespropriabilità è subordinato ad un ulteriore presupposto, estraneo al credito e relativo all’elemento soggettivo del creditore.
Da ciò discende che, perché possa ritenersi sussistente il limite all’espropriazione, è necessario il concorso di due circostanze, una oggettiva, afferente la causa del credito, e l’altra soggettiva, relativa alla conoscenza da parte del creditore delle finalità perseguite dai coniugi.
L’inespropriabilità riguarda tutti i beni ed i relativi frutti, configurandosi pertanto un limite al principio generale posto dall’art. 2740 comma 1 c.c., che impone al debitore di rispondere dell’adempimento delle obbligazioni assunte con tutti i suoi beni, presenti e futuri, a prescindere dalla relativa fonte.
Nel caso in cui l’obbligazione sia stata contratta da un solo coniuge e questi abbia agito nel pieno rispetto delle regole sull’amministrazione del fondo, dell’obbligazione risponde anche l’altro coniuge con la relativa quota, in quanto tutti gli atti rivolti a soddisfare bisogni essenziali della famiglia, costituiscono gestione del fondo stesso.
Emerge, pertanto, prima facie, che il legislatore ha voluto ribadire, così come fece per il patrimonio familiare, la creazione di una categoria privilegiata di creditori, quella dei creditori della famiglia.
La giurisprudenza ritiene che il limite all’espropriazione previsto per i crediti estranei ai bisogni della famiglia operi tanto nell’ipotesi in cui gli stessi siano sorti anteriormente alla costituzione del fondo, quanto in quella in cui siano sorti successivamente.
L’onere di provare la conoscenza da parte del creditore della estraneità dell’obbligazione ai bisogni della famiglia, secondo l’opinione prevalente, grava sui coniugi e non sul creditore procedente. La prova può essere fornita anche mediante presunzioni semplici, essendo sufficiente dimostrare che lo scopo dell’obbligazione appariva come normalmente esterno ai bisogni della famiglia.
E’ di tutta evidenza, pertanto, che la disciplina in questione, derogando al principio generale della responsabilità patrimoniale del debitore, risponda all’esigenza di tutelare gli interessi della famiglia, in quanto rafforza la possibilità della medesima di trovare credito presso terzi per il soddisfacimento dei propri bisogni, attribuendo ai creditori a tale titolo una garanzia di esecuzione sui beni del fondo senza subire il concorso dei creditori personali dei coniugi.
Un problema discusso è se, nell’ipotesi di obbligazione contratta da uno solo dei coniugi per scopi estranei ai bisogni della famiglia, i creditori in buona fede possono aggredire l’intero fondo patrimoniale o soltanto la quota del contraente.
La dottrina maggioritaria opta per quest’ultima soluzione, in quanto l’altro coniuge si troverebbe a dover rispondere di obbligazioni non proprie e per di più estranee al soddisfacimento dei bisogni della famiglia. Le conclusioni a cui perviene tale opinione della dottrina non sono prive di perplessità alla luce delle norme sull’amministrazione del fondo e sulla contribuzione familiare.
Non sembra che la limitazione di responsabilità possa trovare un fondamento, per gli atti di amministrazione compiuti da un solo coniuge, considerato che l’ordinamento stesso attribuisce in certi casi il potere di agire per la gestione del patrimonio o nell’interesse della famiglia anche ad un solo coniuge.
La piena responsabilità è espressamente prevista riguardo alla comunione legale dall’art.186 c.c. che riconosce ai creditori per un atto di amministrazione della comunione il diritto di soddisfarsi sull’intero patrimonio considerando che l’atto è compiuto nell’interesse dello stesso e la stessa ratio ricorre anche per il fondo patrimoniale. Si ritiene che il patrimonio sia vincolato per intero da atti di amministrazione legittimamente compiuti da un coniuge e precisamente, per gli atti di ordinaria amministrazione, ammesso che non vi sia stata opposizione da parte dell’altro coniuge e per gli atti di straordinaria amministrazione se sono stati autorizzati dal giudice nelle ipotesi previste dagli artt.181 e 182 c.c.
Tutto ciò costituisce sufficiente garanzia a tutela delle ragioni del coniuge che non ha agito rispetto all’operato dell’altro. Pertanto, se l’obbligazione, ordinaria o straordinaria, è contratta da un solo coniuge, ma con l’osservanza delle regole sull’amministrazione non esistono ragioni per negare la responsabilità dell’intero fondo, ma se l’obbligazione è contratta abusivamente, violando le norme sull’amministrazione, la quota del fondo appartenente al coniuge che non ha compiuto l’atto non è coinvolta nella responsabilità.
Per le obbligazioni contratte per i bisogni della famiglia risponde anche il patrimonio dei coniugi in comunione legale e quello personale. La comunione risponderà anche per le obbligazioni legittimamente contratte per l’amministrazione dei beni in essa compresi e conferiti dai coniugi al fondo patrimoniale.
Tali beni non cessano di far parte della comunione stessa, per questo gli atti di amministrazione che li riguardano sono nello stesso momento atti di gestione del fondo patrimoniale e della comunione. In base alla regola posta dall’art.190 c.c., i creditori della comunione legale possono aggredire il patrimonio personale del coniuge che non ha agito per la metà del credito rimasto insoddisfatto. Non è certo se tale regola possa trovare applicazione anche nella normativa del fondo patrimoniale.
Una soluzione positiva sostiene che l’atto di amministrazione del patrimonio è compiuto anche nell’interesse dell’altro coniuge in quanto riguarda i beni che gli appartengono in comunione indivisa. Mentre la soluzione negativa sostiene che il principio generale non risponde per l’altrui operato, salvo che non gliene abbia conferito il potere o in ipotesi espressamente previste dalla legge.
Ci si è chiesti se i creditori per bisogni della famiglia hanno un onere di preventiva escussione del fondo o se possono aggredire indifferentemente i beni personali dei coniugi o quelli vincolati. Alcuni autori hanno accolto la prima tesi, ritenendo applicabile l’art.190 c.c. per analogia, e considerando che il “beneficium excussionis” tutelerebbe non solo i coniugi a non subire un depauperamento del patrimonio personale, qualora sussistano ancora beni del fondo, ma anche i creditori personali, i quali sarebbero diversamente esposti al concorso dei creditori familiari,senza poter poi concorrere sui beni del fondo.
Si reputa che esistano quindi fondate ragioni per ritenere che il principio posto dall’art.190 relativamente al “beneficium excussionis” possa trovare applicazione anche per i creditori del fondo, i quali dovranno preventivamente pignorare i beni in esso ricompresi e solo in seguito il patrimonio personale del coniuge.
Tuttavia tali argomentazioni, seppur condivisibili, non trovano riscontro nella disciplina del fondo, né si ritiene che possa essere applicata in via analogica la disposizione dell’art.190, trattandosi di una norma eccezionale, di stretta interpretazione.
I creditori per bisogni della famiglia, concorrono con i creditori personali in buona fede sui beni del fondo patrimoniale. Entrambe le categorie di creditori sono considerate chirografe, poiché l’essere creditore per bisogni della famiglia non costituisce causa di prelazione.
5.2. L’ipoteca sui beni del fondo
Nel concetto di atti di esecuzione, secondo consolidata giurisprudenza, rientrano non soltanto gli atti del processo di esecuzione, ma tutti i possibili effetti dell’esecutività del titolo e, dunque, anche l’ipoteca iscritta sulla base dell’esecutività del titolo stesso, attesa la ratio dell’art. 170 c.c., volta a mantenere integra la posizione e la protezione del creditore.
Tuttavia, posto che l’esecuzione dei beni del fondo da parte dei creditori è consentita soltanto per crediti inerenti ai bisogni della famiglia, l’iscrizione del vincolo ipotecario può ritenersi legittima solo quando questa sia prodromica all’esecuzione su detti beni in virtù di un debito contratto dai coniugi per soddisfare i bisogni della famiglia.
Tale conclusione è conforme ai principi generali in tema di diritto di famiglia, in quanto consente di distogliere i beni del fondo patrimoniale dal loro asservimento ai bisogni della famiglia solo ove i coniugi abbiano assunto obbligazioni nell’interesse familiare ma vi siano risultati inadempienti.
5.2. Le azioni a difesa dei creditori: Azione revocatoria, Azione di simulazione ed Actio nullitatis
L’azione revocatoria costituisce il rimedio dato ai creditori dall’art. 2901 c.c. a tutela della loro garanzia patrimoniale generale contro diminuzioni poste in essere dal debitore attraverso atti di disposizione. Si tratta di un rimedio inteso a conservare la garanzia del credito ossia ad assicurarne la soddisfazione coattiva.
Quando il debitore, esercitando l’autonomia privata ed il potere di disporre dei diritti, lede il proprio patrimonio, rendendolo insufficiente ad assicurare la realizzazione coattiva del credito, l’art. 2901 attribuisce al creditore il potere di ottenere la dichiarazione giudiziale di inefficacia dell’atto di disposizione e così di sottoporre i beni distratti all’azione esecutiva. La costituzione di un bene in fondo patrimoniale, è un atto a titolo gratuito che determina una modificazione della situazione patrimoniale dei coniugi, con conseguente parziale riduzione delle garanzie dei creditori, rendendo i beni familiari aggredibili solo a determinate condizioni.
Affinché l’azione revocatoria possa essere esperita il creditore dovrà provare: l’eventus damni, ossia il pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni del creditore; il consilium fraudis, vale a dire la dolosa preordinazione dell’atto da parte del debitore. In questo caso essendo il fondo patrimoniale equiparabile ad un atto a titolo gratuito è sufficiente provare che lo stesso sia stato costituito con l’intenzione di pregiudicare il credito futuro. L’intento perseguito dal legislatore di sottrarre i beni all’azione esecutiva dei creditori viene limitato dal riconoscimento dell’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria, ai sensi dell’art. 2901 c.c.
Con riferimento all’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria, la Suprema Corte ha affermato, in ripetute occasioni, che la costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata inefficace nei confronti dei creditori esercitando l’azione ex art. 2901 c.c., quale mezzo di tutela del creditore rispetto agli atti del debitore di disposizione del proprio patrimonio, senza alcun discrimine circa lo scopo ulteriore da quest’ultimo avuto di mira nel compimento dell’atto dispositivo.
Più precisamente, i Giudici di legittimità, hanno ritenuto che il negozio costitutivo del fondo patrimoniale, anche quando proviene da entrambi i coniugi, è un atto a titolo gratuito, che può essere dichiarato inefficace nei confronti dei creditori a mezzo di azione revocatoria ordinaria, in quanto rende i beni conferiti aggredibili solo a determinate condizioni (art. 170 c.c.), così riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti.
Funzione di tale azione non è soltanto quella di ricostituire la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, ma anche quella di assicurare uno stato di maggiore fruttuosità e speditezza dell’azione esecutiva. Con riferimento al profilo oggettivo dell’eventus damni, è stato ritenuto non necessario che l’atto di disposizione del debitore abbia reso impossibile la soddisfazione del credito, bensì che lo stesso abbia determinato o aggravato il pericolo dell’insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante. In merito, poi, all’elemento soggettivo, bisognerà distinguere se l’atto di disposizione sia successivo o meno al sorgere del credito.
Nel primo caso, infatti, è necessaria e sufficiente la consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (scientia damni), e cioè la semplice conoscenza a cui va equiparata la agevole conoscibilità, da parte del debitore.
Nel secondo, invece, il creditore, allo scopo di rendere inefficace nei suoi confronti l’atto, dovrà dimostrare oltre alla scientia damni anche l’esistenza del consilium fraudis da parte del debitore, inteso come la consapevolezza dei coniugi di arrecare danno alle ragioni creditorie.
Questione controversa è stata quella relativa alla legittimazione passiva del coniuge non debitore, ma stipulante il fondo patrimoniale, nel giudizio di revocatoria dell’atto costitutivo dello stesso.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale , confermato da una recentissima pronuncia della Suprema Corte , ritiene che la natura reale del vincolo di destinazione impresso dalla costituzione del fondo patrimoniale, in vista del soddisfacimento dei bisogni della famiglia, e la conseguente necessità che la sentenza faccia stato nei confronti di tutti coloro per i quali il fondo è stato costituito, comportano che nel giudizio avente ad oggetto l’azione revocatoria promossa nei confronti dell’atto costitutivo, la legittimazione passiva spetti ad entrambi i coniugi, anche se l’atto sia stato stipulato da uno solo di essi, sussistendo un interesse anche dell’altro coniuge, quale beneficiario dell’atto, a partecipare al giudizio.
Nel caso in cui entrambi i coniugi abbiano preso parte all’atto costitutivo del fondo patrimoniale, il fondamento di tale legittimazione andrebbe individuato nella circostanza che, ai sensi dell’art. 168 c.c., la proprietà dei beni costituenti il fondo spetta ad entrambi.
Questo orientamento giurisprudenziale si pone in netto contrasto con quella parte della giurisprudenza di legittimità che ritiene non sussistente un’ipotesi di litisconsorzio necessario sulla base della considerazione che la revocatoria della costituzione del fondo patrimoniale può incidere soltanto sulla posizione soggettiva del coniuge debitore, non potendo essere aggrediti i beni dell’altro coniuge.
Tuttavia, come è stato correttamente osservato dalla più recente giurisprudenza, la circostanza che la revocatoria del fondo patrimoniale non possa produrre effetti rispetto ai beni eventualmente conferiti dal coniuge non debitore, non consente di escludere la produzione di effetti pregiudizievoli anche nei confronti di quest’ultimo. “Anche nell’ipotesi in cui la costituzione del fondo non comporti un effetto traslativo, essendosi il coniuge o il terzo costituente riservato la proprietà dei beni, il conferimento nel fondo comporta l’assoggettamento degli stessi ad un vincolo di destinazione, con la costituzione di un diritto di godimento attributivo delle facoltà e dei doveri previsti dagli artt. 167 – 171 c.c., il cui venir meno per effetto dell’accoglimento della revocatoria rappresenta un pregiudizio di per sè idoneo a rendere configurabile un interesse del coniuge non proprietario tale da imporne la partecipazione al giudizio”.
L’azione revocatoria ordinaria, secondo quanto disposto dall’art.2903 c.c. si prescrive in cinque anni dalla data di compimento dell’atto di disposizione da parte del debitore, ossia dalla costituzione del fondo patrimoniale.
Trascorso tale termine se non insorgono cause generali di sospensione o interruzione della prescrizione, l’atto di costituzione del fondo patrimoniale si “consolida”. Oltre al rimedio della revocatoria ordinaria di cui all’art. 2901 c.c., contro un uso distorto del fondo patrimoniale, è possibile ricorrere ad altri strumenti che l’ordinamento prevede a tale specifico fine, ovvero all’azione per simulazione (ex artt. 1414 ss. C.c.) ed all’actio nullitatis, ove ne ricorrano i presupposti.
Peraltro, proprio la natura del fondo, generalmente ricondotto tra le convenzioni matrimoniali, non sempre ha consentito il ricorso alla prima azione; tuttavia, attualmente, prevale l’orientamento che ammette per i terzi la prova senza limitazioni dell’esistenza dell’accordo simulatorio, conformemente ai principi generali. E’ da rilevare, inoltre, che l’azione de qua presenta innegabili vantaggi rispetto all’azione revocatoria, trattandosi di azione imprescrittibile, a fronte del termine quinquennale previsto per la revocatoria.
Il negozio impugnato con la simulazione esiste solo apparentemente, in quanto o è inesistente (simulazione assoluta) o è diverso da quella apparente (simulazione relativa). Tale azione tende ad ottenere la declaratoria di nullità. Sia la dottrina che la giurisprudenza, ammettono, poi, quale ulteriore rimedio a favore dei creditori, l’esperibilità dell’actio nullitatis.
E’ stato osservato, infatti, che l’atto costitutivo del fondo patrimoniale potrebbe essere dichiarato nullo ex art. 1418 c.c. in quanto privo della causa familiare costituente la funzione tipica dell’istituto. La nullità dell’atto, inoltre, potrebbe essere invocata sul piano della frode alla legge ex art.1344 c.c., laddove il fondo sia utilizzato quale strumento per eludere le norme imperative in materia di responsabilità patrimoniale, ovvero ex art. 1345 c.c. qualora si riesca a provare che i coniugi si sono determinati alla costituzione del fondo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambi, ossia sottrarre la garanzia ai creditori.
5.4 L’azione revocatoria fallimentare
L’azione revocatoria fallimentare attua una forma di tutela dei terzi estranei al rapporto negoziale e non aventi causa delle parti negoziali i quali esercitano un diritto loro autonomamente riconosciuto dalla legge per effetto della posizione rivestita di creditori insoddisfatti.
Ciò che emerge è che l’atto del debitore è compiuto quando egli era già insolvente, quindi l’atto non è revocabile perché ha reso il debitore insolvente. In base all’art 67 l.f. si rendono revocabili i pagamenti effettuati dal debitore durante lo stato di insolvenza, perché comportano come conseguenza la lesione del principio della par condicio creditorum.
La costituzione del fondo patrimoniale ha un contenuto patrimoniale o almeno suscettibile di valutazione patrimoniale, quindi quando siamo in presenza di notevoli debiti preesistenti vi è un danno a carico dei creditori.
La differenza per il creditore, fra l’azione revocatoria ordinaria e quella fallimentare, si sostanzia nel fatto che, nel primo caso vi è la necessità di “dimostrare il proprio danno”, mentre nella revocatoria fallimentare, il creditore può riferirsi “al danno di altri creditori che non agiscono” e vi è quanto al debitore la “sufficiente conoscenza del pregiudizio per l’atto successivo al sorgere del credito”, il tutto con l’intenzione di creare pregiudizio.
5.4.1 L’opponibilità al fallimento
Occorre preliminarmente precisare che l’art. 46, comma n. 3, Legge Fallimentare (così come novellato dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169), prevede che “non sono compresi nel fallimento…… i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto previsto dall’art. 170 del cod. civ.”.
Secondo l’opinione prevalente in dottrina, per effetto della norma sopracitata, la destinazione dei beni del fondo ai bisogni familiari rimarrebbe intatta anche in sede fallimentare, con la possibilità per i creditori familiari di insinuarsi anche nel passivo generale.
Altra parte della dottrina, invece, ha sostenuto che il fallimento costituirebbe causa di scioglimento del fondo, in quanto le cause di cessazione non sarebbero limitate a quelle ex art. 171 c.c., ma estese ai casi richiamati dall’art. 191, comma 1, c.c., per la comunione legale, tra le quali è compreso il fallimento di uno dei coniugi. E ciò in virtù del richiamo di cui all’ultimo comma dell’art. 171 c.c., alle «disposizioni sullo scioglimento della comunione legale» in ipotesi di assenza di figli.
In tal modo, sarebbe consentito al fallimento di apprendere quanto conferito dal coniuge imprenditore anche prima dei termini previsti dalla legge quale limite per gli atti compiuti anteriormente alla procedura concorsuale. Sulla questione è intervenuta, di recente, la Suprema Corte, chiarendo che“ i beni facenti parte del fondo patrimoniale, in quanto costituenti un patrimonio separato, non possono essere compresi nel fallimento”.
Ad avviso dei giudici di legittimità, pertanto, il fondo rimane del tutto insensibile rispetto al fallimento del coniuge imprenditore. In realtà, inizialmente si era ammessa l’acquisibilità dei beni facenti parte del fondo patrimoniale al fallimento, seppure limitatamente alla quota di pertinenza del coniuge fallito.
Conclusivamente, la Suprema Corte ha, invece, stabilito che detti beni non sono passibili di confusione con il patrimonio del coniuge fallito. In altre parole, si identificano due sfere distinte: il patrimonio del fallito (comprensivo di tutti i beni propri) e quello del fondo, i cui beni non potranno essere aggrediti neanche dal fallimento.
La Suprema Corte ha rilevato, inoltre, che, anche indipendentemente dalla disposizione dell’art. 46, L.F., è sufficiente l’art.155 L.F. ad escludere che i beni del fondo patrimoniale siano acquisiti al fallimento.
Quest’ultima norma, come noto, esclude l’acquisibilità al fallimento dei patrimoni destinati ad uno specifico affare, confermando così il principio della non confondibilità di beni deputati al soddisfacimento di specifiche esigenze, con gli altri beni del fallito.
Analogamente, deve pertanto escludersi che i beni facenti parte del fondo patrimoniale siano ricompresi nella massa attiva del fallimento. In questo contesto, si deve, invece, ritenere che i creditori per debiti inerenti i bisogni della famiglia possono esperire l’azione esecutiva individuale, trattandosi di beni non compresi nel fallimento, rispetto ai quali non opera il divieto di azioni esecutive individuali ex art. 51, L.F. 5.4.2 Segue.
Azione di inefficacia ex art 64 L.F e revocatoria fallimentare ex art. 67 L.F. Anche se il fondo patrimoniale è al riparo da qualsiasi pretesa dei creditori del coniuge imprenditore, la giurisprudenza ha ribadito l’esperibilità dei mezzi di tutela della massa contro l’atto costitutivo del fondo patrimoniale, ovvero dell’azione revocatoria ordinaria, in base la combinato disposto degli artt. 66 L.F. e 2901 c.c. , e dell’azione di inefficacia ex art. 64 L.F. dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale, in quanto atto a titolo gratuito.
In via del tutto ipotetica, ove si volesse accedere alla minoritaria opinione di chi considera non a titolo gratuito l’atto costitutivo del fondo patrimoniale, si potrebbe configurare, in alternativa all’azione di inefficacia ex art. 64 L.F., il ricorso l’azione revocatoria fallimentare ex art 67 L.F.
Più precisamente, ritenendo che l’atto di costituzione del fondo patrimoniale su beni di proprietà dei coniugi è un atto a titolo oneroso, in quanto effettuato nell’adempimento dei doveri previsti dagli artt. 143 e 147 c.c., ne consegue che al fondo patrimoniale sarebbe applicabile l’art. 67 L.F., alternativa «obbligata» nel caso di ritenuta inapplicabilità dell’art. 64 L.F., atteso anche il rinvio che a tale prima disposizione opera il successivo art. 69, in relazione agli atti compiuti tra coniugi.
La giurisprudenza prevalente ritiene, invece, che la costituzione del fondo patrimoniale, essendo atto a titolo gratuito, può essere dichiarata inefficace, consentendo al curatore di usufruire delle agevolazioni probatorie previste dall’art. 64, l. fall.
Ed invero, l’atto di costituzione del fondo patrimoniale, compiuto dal fallito nel biennio anteriore al fallimento, “creando un patrimonio di scopo che resta insensibile alla dichiarazione di fallimento ed impedendo che i beni compresi in tale patrimonio siano inclusi nella massa attiva, incide riduttivamente sulla garanzia derivante alla generalità dei creditori dall’art. 2740 cod. civ. ”, pertanto deve ammettersi l’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare ex art. 64 L.F. da parte del curatore del fallimento.
L’art. 64 L.F. prevede, tuttavia, l’impossibilità di esperire l’azione revocatoria laddove l’atto sia stato compiuto in adempimento di un dovere morale o per scopi di pubblica utilità, ovvero ove si tratti di regali d’uso. Al riguardo, la Suprema Corte ha chiarito che la costituzione del fondo patrimoniale non può essere considerata come atto compiuto in adempimento di un dovere morale nei confronti dei componenti della famiglia, salvo che non si dimostri l’esistenza, in concreto, di una situazione tale da integrare, nella sua oggettività, gli estremi del dovere morale e l’intento dei coniugi di adempiere a quel dovere, mediante l’atto in questione . Resta ferma, in ogni caso, la possibilità per il curatore di agire in revocatoria ordinaria, nell’interesse di tutti i creditori del soggetto dichiarato fallito, avvalendosi di quanto previsto dall’art. 66 legge fallimentare.
Capitolo 3
L’ESTINZIONE DEL FONDO PATRIMONIALE
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le cause di cessazione del fondo patrimoniale. – 2.1. L’annullamento del matrimonio. – 2.2. Lo scioglimento del matrimonio. – 2.3. Lo scioglimento volontario del fondo patrimoniale. – 2.3.1. Lo scioglimento volontario in presenza dei figli minori. – 3. Gli effetti dell’estinzione. – 3.1. La presenza di figli minori: eventuale intervento del giudice ed eventuale attribuzione ai figli di una quota dei beni. – 4. La pubblicità dell’estinzione del fondo.
1. Premessa
Nella previsione originaria del codice civile, la disciplina della cessazione del fondo patrimoniale, differiva in parte da quella vigente: a prescindere dalle cause di cessazione, la maggiore differenza riguardava la possibilità di sciogliere parzialmente il vincolo in caso di morte di un coniuge a cui sopravvivevano figli in parte minori e in parte maggiorenni, a tutela della quota di legittima di quest’ultimi sul patrimonio del genitore defunto.
Nel caso di persistenza del fondo, nonostante lo scioglimento del vincolo matrimoniale, l’amministrazione spettava di diritto al coniuge supersite e, in mancanza, al figlio maggiore emancipato o ad un amministratore nominato dall’autorità giudiziaria.
Il fondo patrimoniale trova il suo substrato necessario nella famiglia, per cui ha naturale cessazione nel momento in cui viene meno il vincolo matrimoniale. L’art. 171 c.c. individua, quali cause di scioglimento, l’annullamento, lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Il principio per cui al cessare del vincolo matrimoniale consegue l’estinzione del fondo, trova però delle eccezioni, dipendenti dalla sua stessa funzione: se l’unione coniugale ha infatti generato dei figli, la cessazione del vincolo non è immediata, ma è posticipata al raggiungimento della maggiore età da parte della prole.
Al momento dello scioglimento si pone, inoltre, il problema comune a tutte le comunioni, cioè quello della divisione dei beni: essi saranno attribuiti ai coniugi secondo i rispettivi diritti, consacrati nell’atto di costituzione del fondo, nei singoli atti di attribuzione, o secondo le presunzioni di legge. Anche in questo caso, però, la legge ha previsto un correttivo, in considerazione delle finalità del fondo, che è volto a soddisfare i bisogni della famiglia: ha cioè previsto che il giudice possa attribuire ai figli, in proprietà o in godimento, una quota dei beni del fondo.
2. Le cause di cessazione del fondo patrimoniale
La cessazione del fondo patrimoniale è disciplinata dall’art.171 c.c., che ne individua le cause nell’annullamento, scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio; tuttavia il fondamento dura fino al raggiungimento della maggiore età da parte di tutti i figli per consentire loro il soddisfacimento dei bisogni esistenziali. La norma precisa, altresì, che trovano applicazione le disposizioni concernenti lo scioglimento della comunione legale.
L’opinione prevalente in dottrina sembra propendere per la tassatività delle cause di scioglimento previste dall’articolo in esame, rappresentate fondamentalmente dal venir meno del vincolo matrimoniale. A tale riguardo si precisa che l’art. 171 c.c. assolverebbe la funzione di rendere applicabili, previo giudizio di compatibilità, le regole previste per lo scioglimento della comunione legale anche alla fase di estinzione del fondo, a prescindere dalle cause che l’hanno cagionata.
Inoltre, l’ampliamento delle cause di scioglimento del fondo contrasta con le finalità di tale convenzione: la separazione personale dei coniugi , la separazione giudiziale dei beni, il fallimento sono tutte ipotesi che non incidono sul vincolo coniugale e sull’esistenza della famiglia, e, pertanto, non si vede perché, in tali casi, il fondo debba cessare dalla sua funzione, con probabile messa in pericolo del soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
2.1. L’annullamento del matrimonio
L’annullamento del matrimonio, quale causa di cessazione del fondo, si riferisce a qualsiasi causa di nullità o di annullabilità che determina l’invalidità del matrimonio.
Si osserva che la nullità è causa di invalidità assoluta, in quanto manca dei suoi elementi essenziali, mentre l’annullabilità attiene ad un vizio secondario del negozio, che pertanto prende vita, anche se la sua esistenza può venire meno; su questa differenza, si fonda la diversa operatività delle cause di invalidità, l’una con effetto retroattivo, l’altra con effetto ex nunc.
Applicando la teoria classica sull’ invalidità del negozio giuridico anche ai rapporti matrimoniali, si dovrebbe concludere nel senso di ritenere che l’annullamento comporta lo scioglimento del vincolo matrimoniale, e dunque anche delle convenzioni che lo presuppongono; la dichiarazione di nullità, avendo natura dichiarativa, accerta l’inesistenza ab origine, di un valido matrimonio, e pertanto comporta anche la nullità radicale ed originaria di tutte le convenzioni matrimoniali.
Il problema viene esaminato sotto il profilo del momento di efficacia del provvedimento di annullamento del matrimonio, e più precisamente il punto fondamentale è quello relativo agli effetti della pronuncia:si è infatti spesso discusso se lo scioglimento del fondo abbia o no efficacia retroattiva.
Secondo l’opinione prevalente, lo scioglimento avviene al momento del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, a prescindere dalla buona o mala fede dei coniugi; altri autori ritengono invece che, nel caso di mala fede, l’effetto estintivo si verifichi retroattivamente se l’annullamento è stato pronunziato per vizio insanabile, sempre che non vi siano figli minori.
In questo caso si è ritenuto, che la regola dello scioglimento possa applicarsi in presenza di figli minori, a prescindere dalla mala fede dei genitori. L’art.171 co.2 in virtù del quale, verificatasi una causa di estinzione del matrimonio, il fondo resta in vita se vi sono figli minori, pone una regola peculiare del regime non limitata ad alcuni casi. Trattasi, infatti, di una forma di tutela a favore di quest’ultimi che non può dipendere dallo stato soggettivo dei genitori.
E proprio in questa prospettiva l’ordinamento attribuisce lo stato di filiazione legittima anche alla prole nata da matrimonio invalido, quantunque i genitori fossero in mala fede, sia pur con qualche eccezione . Anche la giurisprudenza (nell’unica sentenza in cui ha avuto occasione di farlo) sembra propendere per la tesi dell’irretroattività dello scioglimento del matrimonio, ponendo a fondamento della sua tesi la disciplina prevista in tema di matrimonio putativo.
Il tribunale accoglie inoltre tale tesi sia perché conforme ai principi generali in tema di nullità del negozio, sia perché in armonia con la disciplina dettata in tema di matrimonio putativo, e infine perché le convenzioni patrimoniali non sono collegate al matrimonio inteso come negozio, ma al rapporto da esso originato. Con riferimento al primo punto si osserva in primo luogo,che la tesi opposta della efficacia ex tunc (che considera la comunione come mai venuta in essere in ogni caso di matrimonio nullo), risente della ricostruzione canonica del matrimonio come sacramento, concezione per la quale, in presenza di un impedimento, il rapporto deve considerarsi come mai posto in essere.
Pertanto la pronuncia di annullamento non può essere equiparata ad una pronuncia di scioglimento del matrimonio, ma ad un accertamento della sua inesistenza. Questa tesi viene critica perché non tiene conto dell’orientamento generale del legislatore inteso a circoscrivere qualora possibile le conseguenze della nullità.
Con riguardo al secondo punto, si evince che quanto detto, risulta, confermato proprio dalla disciplina dettata in tema di matrimonio putativo. L’art.128 c.c. sancisce infatti che, rispetto ai coniugi, il matrimonio invalido produce gli effetti del matrimonio valido, fino alla data della sentenza che ne dichiara l’invalidità, in favore dei coniugi o del coniuge che lo ha contratto in buona fede o che comunque non è responsabile della celebrazione, poiché il suo consenso è estorto con violenza o è stato determinato da timore di eccezionale gravità, derivante da cause esterne.
Per quanto invece attiene all’ultimo punto, va considerata la particolare natura del rapporto patrimoniale cui da vita il matrimonio nullo. Infatti il regime patrimoniale legale, non è collegato al matrimonio inteso come negozio, ma al rapporto da esso originato; sicché è stato ritenuto che per il tempo in cui il rapporto matrimoniale è comunque esistito, non è possibile prospettare una forma di risoluzione delle convenzioni per difetto funzionale della causa.
Quindi accertata la nullità del vincolo, non può ammettersi che la pronuncia ponga nel nulla ciò che in rerum natura è esistito, ossia la convivenza, la collaborazione nell’interesse della famiglia, gli acquisti eseguiti nello spirito della comunione.
Tali conclusioni sono in armonia sia con l’esigenza di tutelare il coniuge in buona fede, sia con quella di tutelare i diritti dei terzi che hanno fatto affidamento sulla situazione esistente. In caso di figli minori, è fondamentale l’esigenza di tutela degli stessi, i quali sono estranei all’elemento soggettivo che può aver caratterizzato i coniugi all’atto di matrimonio; ciò viene giustificato anche in virtù della stessa funzione del fondo patrimoniale e della previsione del co.2 dell’art. 171 c.c., coerentemente con il sistema normativo desumibile dall’art.128 c.c.
E’ poi evidente che il figlio, che abbia conservato lo status di figlio legittimo dopo l’annullamento ecclesiastico del matrimonio del proprio genitore, non può vantare diritti sul fondo patrimoniale da quest’ultimo costituito all’atto della contrazione di un nuovo matrimonio.
2.2. Lo scioglimento del matrimonio
Il fondo patrimoniale si estingue per il venir meno del vincolo coniugale dal quale la famiglia trae origine, e, innanzitutto, a seguito dello scioglimento del matrimonio derivante da divorzio o da morte di uno dei coniugi.
L’art. 171 c.c. non fa menzione della dichiarazione di morte presunta; essa, comunque, è considerata dalla dottrina prevalente come causa di estinzione del fondo, sulla base della considerazione che la morte presunta determina gli stessi effetti della morte, in particolare il riacquisto dello stato libero dell’altro coniuge che, ai sensi dell’art. 65 c.c., può contrarre un nuovo matrimonio.
Diversamente, altra parte della dottrina, ritiene che la dichiarazione di morte presunta non costituisca causa autonoma di cessazione del fondo . Il ritorno o l’accertamento dell’esistenza del coniuge, di cui fu dichiarata la morte presunta, determinerà la nullità del nuovo matrimonio dell’altro coniuge e, conseguentemente, costituirà causa di cessazione anche dell’eventuale fondo dal medesimo costituito con il nuovo coniuge. In merito non ci sono posizioni uniformi.
Secondo alcuni autori il ritorno del “presunto morto” non produrrà la riviviscenza del precedente fondo patrimoniale, definitivamente estinto, per effetto della dichiarazione di morte presunta. Nell’ipotesi di un eventuale ritorno del coniuge presunto morto, sarà rimessa a lui e all’altro coniuge la decisione, mutatis mutandis, di decidere la costituzione di un nuovo fondo.
A rigor di logica, sembra inopportuna prima ancora che infondata la tesi dottrinale per cui la nullità del matrimonio conseguente al ritorno del presunto morto o all’accertamento della sua esistenza, produce un effetto analogo riguardo al fondo senza necessità di una nuova convenzione, e quindi a prescindere da un rinnovato accordo dei coniugi, fatti comunque salvi gli effetti prodottisi a favore dei terzi.
La dichiarazione di assenza invece non determina lo scioglimento del fondo patrimoniale, giacché il rapporto coniugale non viene meno. Non vi è concordia, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, sul se le cause di scioglimento debbano reputarsi o meno tassative.
Alcuni autori negano in maniera decisiva, la possibilità di configurare una qualsiasi causa di cessazione del fondo che sia diversa da quelle tassativamente indicate dal legislatore: le cause di cessazione del fondo sono tassative, poiché determinano una serie di effetti, caratteristici del modello predisposto dalla legge, e pertanto sottratte al potere dispositivo delle parti, le quali, dunque, non possono alterare il contenuto dell’art.171 c.c., né aggiungendo altre cause di cessazione a quelle previste dalla legge, né prevedendo, in sede di costituzione una clausola risolutiva o un termine finale, o stipulando, successivamente, una convenzione risolutiva dell’efficacia del fondo.
Altra parte della dottrina ha posto in evidenza l’esistenza di altre due cause di cessazione del fondo: l’estinzione del fondo per esaurimento dei beni che ne compongono l’oggetto e lo scioglimento a seguito di un negozio risolutivo.
Chi propende per la tassatività delle cause di scioglimento del fondo patrimoniale in genere fa leva sull’eccezionalità dell’istituto e dunque sull’indisponibilità delle situazioni che ne derivano, mentre i sostenitori della tesi opposta richiamano il principio dell’autonomia negoziale, valido anche per la materia dei rapporti patrimoniali familiari.
La dottrina più moderna ha messo in evidenza come lo scioglimento del fondo patrimoniale sia un comportamento non regolato dal legislatore; Partendo da questa considerazione sono state proposte una serie di ipotesi ermeneutiche, basate sull’interpretazione estensiva, su quella analogica, o sul ricorso a principi generali dell’ordinamento, in tema di autonomia privata in materia negoziale.
Anche la giurisprudenza si è pronunciata per l’ammissibilità dello scioglimento convenzionale del fondo patrimoniale ad opera dei coniugi, stabilendo che a quest’ultimo è applicabile la norma generale che prevede la modificabilità delle convenzioni matrimoniali.
La giurisprudenza ha poi ritenuto che pur in mancanza di un’espressa previsione di legge, è ammissibile lo scioglimento del fondo patrimoniale per espressa volontà manifestata in tal senso dai contraenti.
In particolare, il Tribunale Di Venezia giunse a questa conclusione sempre in applicazione del principio di autonomia privata, non ravvisando una ragione che impedisse ai coniugi di avere la facoltà di modificare il regime patrimoniale attraverso una nuova convenzione, posto che è loro data la facoltà di stipulare liberamente una convenzione matrimoniale e, nel caso di specie, costituire un fondo patrimoniale.
2.3 Lo scioglimento volontario del fondo patrimoniale
La non tassatività delle ipotesi di scioglimento del fondo patrimoniale previste nell’art.171 risulta oltre che da un percorso interpretativo, anche dalla considerazione secondo la quale se per lo scioglimento consensuale vi possono essere dubbi di ammissibilità, non si può escludere che il fondo venga meno per cause indipendenti dalla volontà dei coniugi (furto), o per effetto indiretto di comportamenti da essi posti in essere secondo le regole dell’ordinamento.
Uno degli argomenti a maggior sostegno della teoria della non tassatività delle cause di scioglimento del fondo è aver ritenuto che con l’esaurimento dell’oggetto, il fondo si estingua. La differenza tra l’esaurimento dell’oggetto e l’accordo di scioglimento sta nel fatto che l’estinzione del fondo a seguito dell’alienazione dei beni ex art.169 c.c. incide sul fondo patrimoniale oggettivamente considerato, mentre lo scioglimento incide sul negozio costitutivo; l’estinzione, nel primo caso, è indiretta, ossia costituisce una conseguenza di un atto di amministrazione.
Il legislatore non menziona l’ipotesi dello scioglimento per accordo dei coniugi, e tale silenzio ha dato adito a diverse interpretazioni. Secondo un primo orientamento, i coniugi potrebbero alienare i beni nel rispetto dell’art. 169 c.c.; non sarebbe, invece, loro consentito né procedere a modificazioni (anche limitatamente ad alcuni beni), sia quantitative che qualitative, le quali comportino un decremento, né tantomeno procedere ad uno scioglimento volontario del vincolo.
Quanto alle modifiche, si è inoltre ritenuto che, dal combinato disposto degli artt. 169, 170 e 171 c.c. sarebbe ricavabile il principio secondo il quale, una volta costituito, il fondo non sia più nella disponibilità delle parti; quanto, invece, all’esclusione dello scioglimento volontario, si è asserito che i casi di cessazione del fondo sono tassativamente indicati dall’art. 171 e che la risoluzione per mutuo consenso contrasterebbe sia con le esigenze di tutela dei terzi, sia con la funzione precipua del fondo patrimoniale.
Più precisamente lo scioglimento a seguito di mutuo dissenso, è diretto, ossia espressamente voluto dalle parti e consegue alla stipula di una convenzione in senso inverso alla precedente. In questo caso, la causa di cessazione è negoziale, mentre nel caso dell’atto di disposizione dell’unico bene ex. art.169, l’estinzione è mediata, ossia si pone come conseguenza di un atto di amministrazione.
Inoltre, l’estinzione del fondo a seguito di alienazione dei beni ex art. 169 c.c. incide sul fondo patrimoniale oggettivamente considerato e non sul negozio costitutivo. La tesi sopra enunciata è sostenuta da parte della giurisprudenza più rigorosa, che propende per la tassatività delle cause di estinzione del fondo.
Il Tribunale di Roma in un provvedimento del 14 giugno 1999, partendo dal presupposto che lo scioglimento volontario del fondo è un comportamento non regolato dal codice, ritiene che l’interprete, nella sua attività ermeneutica, non possa prescindere da quanto indicato nell’art. 12 delle preleggi, che impone di procedere, in ordine successivo, all’interpretazione letterale, a quella estensiva, all’analogia legis e all’applicazione dei principi generali (analogia iuris).
Le norme che potrebbero trovare applicazione nel caso in esame sono quelle contenute negli artt. 163, 169 e 171 c.c. Il riferimento non è del tutto accettabile, poiché si opera una non condivisibile equivalenza tra modificazione, estinzione, cessazione e scioglimento del fondo.
Lo scioglimento volontario del fondo, infatti, si differenzia dalla sua modificazione, che implica esclusivamente un cambiamento della misura, del contenuto, quindi un mutamento interno senza comportare la risoluzione della convenzione.
Quanto alle cause di cessazione ex art. 171 c.c., ogni assimilazione con lo scioglimento volontario appare preclusa, innanzitutto, poiché manca, nella norma, qualsiasi riferimento alla volontà dei coniugi volta al dissolvimento del vincolo di destinazione; e, in secondo luogo, perché l’art.171 c.c. è rubricato “Cessazione del fondo” e non “Scioglimento”.
In dottrina, si è affermato che “le cause di cessazione legislativamente previste costituiscono raggi diversi di una raggiera dotata di un più ampio centro, in cui il medesimo cerchio è costituito dalla difficoltà o impossibilità oggettiva di amministrare i beni costituiti” (argomentando ex art. 171, cpv. c.c.) ; cosa che non si verifica nell’ipotesi di risoluzione per mutuo consenso, laddove al massimo si potrebbe avere una difficoltà o impossibilità solo oggettiva.
Quanto agli aspetti processuali, il Tribunale ordinario di Roma, nell’affermare la propria competenza per materia, ha disatteso implicitamente l’opinione dominante, secondo la quale occorrerebbe adire il Tribunale dei minorenni.
Tale ultimo indirizzo si fonda sulla considerazione che, mancando una specifica norma che attribuisca l’autorizzazione al Tribunale ordinario, sarebbe necessario fare ricorso all’analogia legis, applicando l’art. 171 c.c., in considerazione della stessa ratio.
Secondo i giudici capitolini, il potere del giudice ex art. 171 c.c. si spiega in considerazione del differimento dell’effetto della cessazione del fondo, mentre in caso di scioglimento volontario la risoluzione ha effetto immediato. È altresì stemperata la specifica competenza che la norma da ultimo citata attribuisce al Tribunale dei minorenni, e cioè “dettare norme per l’amministrazione del fondo”.
Deve, infine, considerarsi la norma generale contenuta nell’art. 38, cpv. disp. att. c.c., che prevede la competenza del Tribunale ordinario per tutti i provvedimenti per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria.
Da ciò si fa discendere che, una volta ammessa la necessità dell’autorizzazione, questa debba essere concessa dal Tribunale ordinario. Diversi rilievi critici sono stati formulati in senso contrario alla tesi su esposta. Innanzitutto, relativamente all’assunto della indisponibilità del vincolo di destinazione da parte dei privati. Si è rilevato, infatti, che l’indisponibilità giuridica riflette quella singolare posizione del titolare del diritto, conseguente al fatto che il diritto stesso è destinato ad assolvere una particolare funzione nei confronti di determinate persone (terzi creditori); essa, a differenza del vincolo di inalienabilità, ha carattere soggettivo e relativo, non reale né assoluto.
La sua violazione, pertanto, non incide sulla validità dell’atto, ma potrà portare solo al risarcimento del danno o all’inefficacia dell’esercizio del potere dispositivo nei confronti dei terzi creditori.
In secondo luogo, si è osservato, in giurisprudenza, che la pretesa tassatività non è desumibile né dal dato letterale dell’art. 171 c.c., né da una sua interpretazione sistematica, poiché tale norma regola un rapporto non dipendente dalla volontà delle parti (l’annullamento e il divorzio vengono, infatti, pronunciati anche in dissenso di una delle parti). A tale proposito, vi è chi ha fatto notare che il fondo patrimoniale è una convenzione matrimoniale e quindi un negozio giuridico, e i negozi giuridici, ai sensi dell’art. 1372 c.c., non possono essere sciolti “che per mutuo consenso o per le cause ammesse dalla legge”.
Proprio alla luce di quest’ultima disposizione va letto l’art. 171, il quale indica le specifiche cause di cessazione; pertanto, trovando applicazione il principio generale dettato dall’art. 1372,la previsione dello scioglimento per mutuo consenso, nella disciplina specifica dettata per il fondo patrimoniale, sarebbe risultata del tutto superflua . Anche parte della giurisprudenza si è pronunciata per l’ammissibilità dello scioglimento volontario del fondo patrimoniale , sulla base del principio di autonomia privata, ritenendo che l’art.171 si limiti a dettare le conseguenze che possono verificarsi in caso di cessazione del fondo per cause non dipendenti dalla volontà dei coniugi.
Pertanto nell’ipotesi in cui marito e moglie siano d’accordo, come è data loro facoltà di stipulare una convenzione patrimoniale, allo stesso modo è concessa la medesima facoltà di modificare il regime patrimoniale della famiglia e sciogliere il fondo patrimoniale attraverso una nuova convenzione. Secondo l’orientamento intermedio , anche se il fondo può esaurirsi a seguito dell’alienazione dei beni ex art.169 c.c. (o dell’esecuzione promossa per un debito contratto per uno scopo afferente ai bisogni della famiglia), a differenza degli altri regimi patrimoniali, potrebbe essere modificato, ma non radicalmente eliminato, attraverso la facoltà concessa dall’art. 163. Tale opinione dottrinale è stata sottoposta alle medesime obiezioni avanzate in relazione al primo indirizzo. L’orientamento oggi prevalente ammette lo scioglimento consensuale del fondo.
Diversi sono gli argomenti addotti a favore della tesi in esame, tra cui in primis quello secondo cui le cause di cessazione indicate dall’art.171 non sono tassative; si è poi ritenuto che, essendo il fondo patrimoniale una convenzione matrimoniale, è applicabile l’art.163, con conseguente possibilità di una sua modificazione o del suo scioglimento consensuale anticipato, mediante una successiva convenzione.
Non è mancato poi chi ha ritenuto che, se i coniugi, in assenza di figli minori, possono disporre discrezionalmente dei beni del fondo, anche mediante loro alienazione o decisione di svincolare detti beni dalla destinazione originaria per consentirne una diversa utilizzazione, provocandone talvolta l’estinzione, essi potrebbero procedere allo scioglimento volontario.
Nel caso in cui alla costituzione del fondo abbia partecipato anche il terzo, mediante conferimento di propri beni, è necessario anche il suo consenso: trova, infatti, applicazione la disposizione dell’art. 163 c.c., in virtù del quale prevede che per apportare modifiche alla disciplina del fondo occorre il consenso di tutte le parti costituenti.
2.3.1 Scioglimento volontario in presenza di figli minori
Sussistono perplessità in ordine all’ammissibilità dello scioglimento convenzionale in presenza di figli minori, in quanto, in tale ipotesi, è necessaria la rispondenza della decisione anche ai loro interessi; qualora ciò sia ritenuto ammissibile, occorrerà l’intervento di un’autorizzazione giudiziale, secondo quanto prescritto dall’art. 169 c.c. per gli atti di disposizione dei beni del fondo. In aderenza a quanto già sostenuto da autorevole dottrina, anche la giurisprudenza propende per la legittimità della tesi più liberale.
Chi nega tale impostazione, si basa sulla considerazione che essa contrasterebbe con la ratio dell’istituto, volto a far fronte ai bisogni della famiglia. In realtà, è proprio tale ratio che consente di affermare l’arbitrarietà di una qualsiasi soluzione assoluta ed aprioristica, dovendosi, invece, valutare, caso per caso, quella maggiormente idonea a tutelare l’interesse della famiglia nel suo complesso, compresi i figli minori.
Secondo parte della giurisprudenza inoltre sarebbe assurdo sostenere che il fondo patrimoniale, costituito per far fronte ai bisogni della famiglia, non potesse essere sciolto in quei casi in cui è la sua stessa esistenza a impedire il perseguimento dell’interesse della famiglia. In sostanza, la presenza di figli minori non impedisce lo scioglimento, ma si limita a imporre una particolare cautela al fine di evitare che i genitori sottraggano i beni alla loro funzione senza tener conto delle esigenze e degli interessi dei figli.
Il problema che si pone non è quello dell’ammissibilità dello scioglimento convenzionale in presenza di figli minori, bensì quello di stabilire idonee garanzie a favore di questi ultimi, ammettendo la risoluzione solo nelle ipotesi in cui ciò rappresenti lo strumento più idoneo a perseguire l’interesse della famiglia.
Quanto alla verifica delle condizioni relative allo scioglimento convenzionale, la decisione non può essere rimessa all’esclusivo arbitrio dei coniugi: in questi casi, infatti, sorge la necessità di investire della questione un soggetto terzo, che vagli l’intenzione delle parti e gli interessi coinvolti, valutando se la risoluzione consensuale rappresenti effettivamente lo strumento maggiormente idoneo a soddisfare i bisogni della famiglia.
Tale soggetto terzo deve necessariamente essere rappresentato da un organo giurisdizionale nell’ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione. Si pone a questo punto la necessità di individuare l’autorità giudiziaria competente a decidere in merito.
Ugualmente privo di competenza è il Tribunale ordinario nell’ipotesi delineata dall’art. 169 c.c., giacché detta norma si occupa esclusivamente degli atti di disposizione sui singoli beni che compongono il fondo e quindi di ipotesi dirette ad esaurire e consumare il fondo medesimo.
In presenza di una lacuna legislativa sul punto, l’unica norma che sembra potersi adattare all’ipotesi in esame è l’art. 171 c.c. rubricato, appunto, “cessazione del fondo”: quest’ultima disposizione sembra la più idonea ad apprestare la necessaria tutela degli interessi coinvolti e quella con la quale la fattispecie in esame presenta il collegamento più stretto.
Poiché, infatti, la risoluzione consensuale incide direttamente sul negozio costitutivo del fondo, provocando il venir meno dello stesso vincolo di destinazione, si determina il medesimo effetto che scaturisce dalle ipotesi contemplate dall’art. 171, il quale peraltro non ha carattere tassativo. Sussistendo la stessa ratio dell’art. 171, ne discende che la competenza a decidere nel merito risulta attribuita al medesimo organo designato dal legislatore per le ipotesi qui previste e cioè il Tribunale per i minorenni.
In sostanza, il giudice dovrà preliminarmente effettuare una valutazione degli interessi nel caso concreto al fine di verificare se la risoluzione del fondo rappresenti effettivamente la modalità più idonea per perseguire gli interessi della famiglia o costituisca semplicemente un capriccio, se non addirittura una manovra fraudolenta attuata dai coniugi per sottrarre i beni al vincolo di destinazione cui gli stessi erano sottoposti.
3. Gli effetti dell’estinzione
A seguito del verificarsi di una causa di estinzione del fondo viene meno il vincolo di destinazione dei beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, a meno che non vi siano figli minori; pertanto, i creditori familiari perdono il privilegio loro concesso dalla legge di non subire sui beni del fondo il concorso con i creditori personali dei coniugi.
L’ultimo comma dell’art. 171 c.c. rinvia alle norme sullo scioglimento della comunione legale qualora non vi siano figli. Ne discende l’obbligo di procedere ai rimborsi e alle restituzioni nel caso in cui non si fosse provveduto in precedenza previa autorizzazione giudiziale in tal senso.
Ciascun coniuge deve reintegrare il fondo se la quota di cui era titolare è stata, in tutto o in parte, espropriata dai creditori personali, o se ha utilizzato somme o frutti in esso contenuti a vantaggio personale, o se ne ha alienato abusivamente i beni. Al patrimonio personale del coniuge devono, invece, essere restituite tutte le risorse impiegate a vantaggio del fondo: in base all’art. 192, i rimborsi possono avvenire anche mediante prelievo da parte del coniuge creditore di beni dal patrimonio comune per l’importo dovutogli.
Al momento dello scioglimento del vincolo, sui beni residui del fondo si costituisce una comunione ordinaria tra i coniugi; tale comunione permane qualora il fondo si sia estinto per accordo dei coniugi senza che venga nel contempo pattuito lo scioglimento del regime legale. Anche i figli diventano proprietari di una quota del fondo ai sensi dell’art. 171 comma 3, nel caso in cui il vincolo sia rimasto in vita per soddisfare i loro bisogni sino al raggiungimento della maggiore età.
Secondo le regole generali, i coniugi possono procedere alla divisione dei beni prima inclusi nel fondo ed appartenenti loro in comunione ordinaria a seguito dello scioglimento del medesimo. Stabilisce in proposito l’art. 194, comma 1 (applicabile al fondo in virtù del richiamo operato dall’art. 171, comma 4), che la divisione si effettua ripartendo in parti uguali l’attivo e il passivo. La ripartizione dell’attivo può avvenire in misura diseguale nel caso in cui un coniuge risulti debitore o creditore del fondo in base alle operazioni di rimborso e restituzione (art. 192, ultimo comma).
3.1. L’Amministrazione
L’estinzione del rapporto matrimoniale, che derivi da morte o da altra causa, può riflettersi negativamente sull’amministrazione del fondo. In altre parole, vi è il pericolo che le divisioni create dal naufragio del rapporto coniugale riportino alla luce l’interesse egoistico dei coniugi, accantonando il superiore interesse della famiglia che dovrebbe caratterizzare tutti gli atti di gestione del fondo.
Nel caso di morte di un coniuge, i pericoli derivano dalla mancanza improvvisa di uno degli amministratori, che potrebbe essere colui che fino a tale momento si è occupato in maniera saliente della gestione. Questo non significa che vi è l’automatica decadenza dei coniugi, o del coniuge superstite, dal potere di amministrare il fondo, ma solo che è concesso al giudice un potere di controllo e di intervento che normalmente gli è precluso.
Pertanto qualsiasi interessato, per prevenire il rischio di una cattiva amministrazione, è legittimato a chiedere al giudice, non solo di dettare misure cautelari in ordine alla gestione del fondo, ma anche di procedere alla rimozione dei coniugi o del coniuge superstite dall’amministrazione, affidando la stessa ad un terzo amministratore. La nomina di quest’ultimo si rende necessaria nell’ipotesi di cui all’art.171, comma 2 c.c., al fine di assicurare la continuità della gestione del fondo, solo in caso di morte di entrambi i coniugi o quando il coniuge superstite sia stato già escluso dall’amministrazione.
3.2 La presenza di figli minori: eventuale intervento del giudice ed eventuale attribuzione ai figli di una quota dei beni
Nonostante il verificarsi di una causa idonea a determinare lo scioglimento del fondo, il vincolo sui beni in esso ricompresi non si estingue in presenza di figli minori, ciò al fine di consentire agli stessi di mantenere il tenore di vita goduto fino a quel momento: tale vincolo permane fino a che l’ultimo dei figli non abbia raggiunto la maggiore età . In tal modo il legislatore tende a proteggere più intensamente gli interessi dei minori a discapito dell’interesse dei coniugi a ritornare nella disponibilità dei beni senza più vincoli.
Tuttavia, nel caso in cui vi siano figli minorenni, il fondo resta in vita per soddisfare le esigenze di tutta la famiglia, poiché l’art. 171 non limita la funzione del medesimo, nella fase di temporanea costituzione, al soddisfacimento solo dei bisogni dei figli minorenni.
Circa il profilo soggettivo, la ratio della norma ha indotto la dottrina a ritenere che la regola suddetta trovi applicazione non solo nel caso in cui vi siano figli minori, ma anche quando si sia in presenza di figli concepiti dalla coppia (condizionatamente all’evento della nascita) o discendenti minorenni con essa conviventi, nei cui confronti i coniugi siano obbligati al mantenimento (cfr. art. 148 c.c.).
Per quanto riguarda i figli unilaterali è necessario che essi siano già inseriti nella famiglia dei coniugi, quando già sia in atto il vincolo di destinazione dei beni in fondo patrimoniale. La continuazione del fondo non è invece prevista quando vi siano solamente figli maggiorenni non autonomi patrimonialmente.
In tale fase, i coniugi o il coniuge superstite rimangono titolari dei poteri di gestione del fondo, ma la legge attribuisce al giudice la facoltà di dettare disposizioni particolari al riguardo, su istanza di chi vi abbia interesse. In particolare, il Tribunale dei minorenni competente, ossia quello del luogo in cui risiedono i minori, può dettare norme, per l’amministrazione del fondo, valevoli finché l’ultimo dei figli minori non abbia raggiunto la maggiore età: la gestione del fondo può essere affidata a un solo coniuge o anche ad un terzo estraneo qualora sussista un obiettivo impedimento dell’avente diritto.
L’art. 171, comma 3, riconosce al giudice la facoltà di attribuire ai figli una quota dei beni del fondo in proprietà o in godimento. Sul significato da attribuire a tale norma, la dottrina non è unanime, tanto che ne sono state prospettate diverse interpretazioni. Si ritiene generalmente che il provvedimento giudiziale comporti lo scioglimento parziale del fondo, poiché i beni entrano a far parte del patrimonio del figlio senza vincoli.
Opinioni discordi si rinvengono invece riguardo ai figli a favore dei quali possono essere attribuiti i beni: secondo alcuni, deve trattarsi di maggiorenni non autonomi patrimonialmente, mentre secondo altri possono essere anche minorenni, perché non sussiste alcuna fondata ragione per escluderli dal beneficio. Dubbi sussistono anche riguardo al collegamento tra il provvedimento in questione e la continuazione del fondo.
Secondo un orientamento dottrinale, infatti, esiste un preciso nesso giacché l’attribuzione di una quota dei beni ha la funzione di compensare il pregiudizio risentito dai figli maggiorenni per il fatto che il vincolo resta in vita ; altra corrente di pensiero individua, invece, nel provvedimento in esame una misura alternativa alla continuazione del fondo ; da ultimo, vi è chi ritiene che anche quando il fondo si estingue il giudice possa attribuire una quota dei beni ai maggiorenni.
Contro le soluzioni proposte sono state mosse diverse obiezioni . Innanzitutto, si sostiene la non correttezza dell’affermazione secondo la quale il provvedimento in esame comporta l’esclusione del fondo dei beni attribuiti ai figli. Ciò si evince dalla considerazione che, sotto la normativa previgente, l’art. 175 c.c. attribuiva espressamente al giudice il potere di sciogliere il vincolo relativamente ad alcuni beni del patrimonio familiare per attribuirli ai figli maggiorenni al fine di rendere possibile il conseguimento della legittima loro spettante sul patrimonio del genitore defunto.
Tale formulazione non è stata riproposta; anzi, è mutato lo stesso fondamento del provvedimento giudiziale che non appare più funzionale al soddisfacimento dei diritti successori dei legittimari, essendone prevista l’operatività in presenza di una qualsiasi causa di estinzione del fondo.
Dalla previsione dell’attribuzione dei beni del fondo con riferimento alla fase di continuazione dello stesso (funzionale alla tutela degli interessi dei minori), discende che il provvedimento deve operare solo mantenendo in vita il vincolo sui beni, al fine di evitare che vengano altrimenti esecutati anche dai creditori del figlio stesso i quali facciano valere diritti non collegati al soddisfacimento dei bisogni di vita. Il figlio assume pertanto la qualità di contitolare dei beni, che rimangono vincolati al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
Qualora, invece, non vi siano figli minori, ma solo maggiorenni, il provvedimento non può operare a loro favore, poiché il fondo si estingue immediatamente al verificarsi della causa di scioglimento. L’attribuzione della quota non può riguardare i maggiorenni, poiché il fondo non rimane in vita per tutelare loro interessi: esso costituisce, in sostanza, una misura espropriativa di beni a danno dei coniugi, la quale presuppone l’esigenza di tutelare un interesse più rilevante, rispetto all’integrità del patrimonio, rispetto a quello di cui si rendono portatori soggetti particolarmente “deboli” al soddisfacimento dei loro bisogni.
In conclusione, si ritiene che l’art. 171, comma 3, predispone una misura di protezione solo a favore dei figli minori quando il fondo resta in vita per soddisfare i loro bisogni; essa consiste nel trasferimento a favore di tali figli di una quota dei beni del fondo in proprietà o in godimento senza che venga meno il vincolo originario caratterizzante l’istituto proprio in funzione del soddisfacimento dei bisogni suddetti. Sui beni del fondo si costituisce una situazione di contitolarità tra i coniugi (o il coniuge superstite) e i figli beneficiari del provvedimento, con conseguente modifica della disciplina di amministrazione dei beni.
Il relativo provvedimento si concreta fondamentalmente in un’espropriazione a carico dei genitori e pertanto esso dovrebbe essere disposto solamente quando sussista l’effettivo pericolo che i coniugi, in seguito ad una cattiva gestione del patrimonio personale, finiscano per depauperare anche i beni del fondo oppure quando appare necessario coinvolgere nella sua gestione il minore (tramite l’intervento del curatore speciale) onde rendere possibile una tutela più efficace del suo interesse a conseguire il mantenimento.
Nel caso in cui il fondo si sciolga per morte di uno dei coniugi, il provvedimento può avere ad oggetto solamente la quota eventualmente spettante al coniuge superstite, dato che la norma il esame non può prevalere sulla comune vicenda successoria. Qualora nonostante la morte di uno dei coniugi il fondo resti in vita per la presenza di figli minori, la continuazione non può verificarsi in pregiudizio delle aspettative degli altri legittimari a conseguire la quota riservata; essi potranno pertanto agire con l’azione di riduzione per ottenere la restituzione dei beni rimasti nel fondo.
Nel caso in cui i beni rientrino nella quota disponibile, i beneficiari li acquisteranno gravati dal vincolo al soddisfacimento dei bisogni familiari finché tutti i figli non abbiano raggiunto la maggiore età. 4. La pubblicità dell’estinzione del fondo patrimoniale In base alla disciplina prevista dall’ordinamento per le convenzioni matrimoniali si pone la necessità di dare adeguata pubblicità dell’estinzione del fondo.
L’esigenza è soddisfatta mediante annotazione a margine dell’atto di matrimonio della sentenza di annullamento, o di scioglimento del matrimonio, della sentenza dichiarativa di morte presunta, o dell’accordo di scioglimento stipulato tra i coniugi. In caso di mancata annotazione lo scioglimento del fondo non sarà opponibile ai terzi. La pubblicizzazione non è invece necessaria nel caso in cui il fondo resti in vita per la presenza di figli minori; in tal caso sarà onere dei terzi interessati informarsi della presenza di figli minori.
Lo scioglimento deve altresì essere annotato nei registri immobiliari a margine della trascrizione della convenzione costitutiva. L’annotamento nei registri immobiliari, in considerazione della teoria alla quale abbiamo aderito, ha natura di pubblicità-notizia.
Capitolo 4
ISTITUTI COMPLEMENTARI AL FONDO PATRIMONIALE
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Istituti complementari: fondo patrimoniale e atto di destinazione allo scopo. – 2.1 Segue : Fondo patrimoniale e trust
1. Premessa
L’autonomia privata si può definire come lo spazio di creatività del soggetto giuridico all’interno dell’ordinamento; più precisamente autonomia significa, in generale, attività e potestà di darsi un ordinamento, di dare cioè assetto ai propri rapporti e interessi, ad opera dello stesso ente o soggetto a cui spettano.
A tal proposito, ampia autonomia è lasciata, oggi ai coniugi, nella scelta del regime matrimoniale; la preferenza dell’ordinamento per la comunione legale, quale regime che meglio realizza la parità, non solo economica, degli sposi, non priva i coniugi della facoltà di optare per un regime diverso e della possibilità di introdurre modifiche non indifferenti nella regolamentazione tipica dei rapporti patrimoniali familiari.
L’autonomia dei coniugi si manifesta in tre diverse forme:
a) come libertà di scelta fra i diversi regimi patrimoniali tipici;
b) come libertà di scegliere regimi patrimoniali atipici;
c) come libertà di determinare il contenuto della convenzione entro i limiti imposti da norme inderogabili di legge e dalle finalità della Riforma del diritto di famiglia.
Vi è un aperto dibattito circa l’ammissibilità dei regimi patrimoniali atipici, rinfocolato dall’introduzione dell’art 2645 ter c.c.
Con tale disposizione si è consentita la trascrizione degli “atti di destinazione per la realizzazione degli interessi meritevoli di tutela”, qualora questi abbiano ad oggetto beni immobili o beni mobili registrati. I tratti comuni tra questi e il fondo patrimoniale sono evidenti, in particolare per quanto concerne il vincolo all’impiego dei beni destinati e dei relativi frutti ed i limiti all’aggredibilità di essi da parte dei terzi.
Infine non si può fare a meno di esaminare il trust, dal momento che tale istituto ha ad oggetto la disposizione di beni aventi normalmente un valore economico risultando quindi naturale considerare il suo campo di applicazione nell’ambito dei rapporti patrimoniali della famiglia.
La dottrina individua normalmente il campo di azione dei trusts nell’ambito delle convenzioni matrimoniali atipiche, in contrasto con chi è giunto all’assimilazione del trust ad una convenzione tipica, ravvisando nell’istituto del fondo patrimoniale un vero e proprio trust “amorfo”. Infatti, si nota che proprio con riferimento alle esigenze e finalità connesse con la costituzione di un fondo patrimoniale, il trust ha trovato il suo maggior campo di azione in materia familiare.
2. Istituti complementari: fondo patrimoniale e atto di destinazione allo scopo
Istituti “complementari” al fondo patrimoniale sono stati indicati nella dottrina nell’atto di destinazione introdotto dall’art.2645 ter c.c. e nel trust . Con l’atto di destinazione un soggetto può sottrarre, uno o più “beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri” appartenenti al suo patrimonio alla garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c., imprimendo su di essi un vincolo di destinazione funzionale al soddisfacimento di interessi meritevoli di tutela riguardanti beneficiari determinati, a favore dei quali sia tali beni che i loro frutti devono essere impiegati.
Il vincolo non può avere durata superiore a novanta anni. Esso deve risultare da atto avente forma pubblica e può essere trascritto ai fini dell’opponibilità nei confronti dei terzi. Per la realizzazione dello scopo può agire, oltre al disponente, anche qualsiasi altro interessato.
La conseguenza dell’apposizione del vincolo è che i beni destinati alla finalità ed i loro frutti possono essere oggetto di esecuzione – salvo quanto previsto dall’art. 2915, comma 1, c.c. – per i soli debiti contratti per tale scopo. L’art. 2645-ter c.c. prevede quindi un vincolo di destinazione “atipico”, nel quale gli scopi non sono predeterminati dal legislatore ma rimessi all’autonomia privata, sempreché superino il giudizio della meritevolezza degli interessi perseguiti.
L’atto di destinazione quale risulta dall’art. 2645-ter c.c. si sostanzia nella funzionalizzazione di un bene, con apposizione del vincolo sul bene stesso, al fine del raggiungimento di un determinato scopo. Il vincolo, effetto dell’atto, comporta limitazioni nel godimento e nel potere di disposizione.
Ogni vincolo ha un profilo statico, in quanto esclude i beni vincolati dal principio della responsabilità patrimoniale generica ex art. 2740 c.c., e li rende aggredibili solo per debiti contratti per lo scopo della destinazione; ed un profilo dinamico, perché obbliga uno o più soggetti a perseguire tale finalità. Punto centrale dell’atto di destinazione è il suo scopo, che deve essere volto alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. La norma evidenzia inoltre gli interessi riferibili a persone con disabilità, a Pubbliche Amministrazioni, ed infine genericamente ad altri enti o persone fisiche.
Il requisito della meritevolezza è richiesto come contropartita del fatto che il vincolo imposto priva il conferente, per un periodo anche molto lungo, della pienezza delle facoltà insite nel diritto di proprietà nonché del fatto che i beni in oggetto sono sottratti alla garanzia generica rappresentata per i creditori del disponente (o del soggetto attuatore della finalità, in caso di trasferimento del bene ad un fiduciario) dal suo intero patrimonio.
L’atto di destinazione può indubbiamente essere impiegato per realizzare gli interessi dei membri della famiglia bisognevoli di assistenza. E’ invece dubbio se l’atto di destinazione possa sovrapporsi all’istituto del fondo patrimoniale per realizzarne la medesima funzione ma con una diversa disciplina.
Va premesso che la praticabilità dell’istituto di cui all’art. 2645 ter c.c., quale possibile convenzione matrimoniale, presuppone che sia risolta la disputa dottrinaria tra chi ritiene limitate le convenzioni ai casi tassativi di cui al capo sesto del titolo sesto del libro primo del codice civile e chi invece afferma il carattere atipico delle convenzioni e dei relativi regimi patrimoniali: invero, sostengono questi ultimi, se l’autonomia negoziale può liberamente dar vita a convenzioni patrimoniali diverse da quelle previste dall’art. 159 e ss. c.c., non si vede perché l’autonomia patrimoniale non possa avvalersi di altri negozi, quale quello di cui all’art. 2645 ter c.c. per conseguire analoghi risultati.
Di questo avviso è la dottrina ormai prevalente L’istituto di destinazione proprio del diritto di famiglia e dei rapporti interfamiliari era individuato, ante novella, nel fondo patrimoniale, disciplinato dagli artt. 167 e ss. c.c. Anche il predetto istituto era ritenuto una convenzione in deroga ai principi della comunione (o della separazione dei beni) ex art. 159 c.c. (“diversa convenzione”).
Un primo evidente aspetto di differenziazione tra il fondo patrimoniale e l’atto di destinazione, è quello relativo al presupposto. Per quanto attiene al fondo patrimoniale deve trattarsi di un rapporto di coniugio civile o concordatario. In assenza di tale presupposto essenziale, non si può costituire l’istituto in questione. Il che significa che, per tutte le tipologie di unioni di fatto e per tutte le convivenze more uxorio, l’istituto del fondo patrimoniale non è previsto né potrebbe essere utilizzato, pena la sua evidente invalidità. Un primo ambito di operatività e di ampliamento della possibilità di destinazione in ambito familiare o parafamiliare può essere quindi ricollegato a tale profilo, infatti ne possono usufruire le coppie di fatto o le unioni more uxorio per raggiungere gli stessi obiettivi perseguibili con il fondo patrimoniale.
Ove alla famiglia di fatto fosse riconosciuto il requisito di meritevolezza che normalmente viene riconosciuto al rapporto di coniugio civile, potrebbero individuarsi anche interessi ulteriori rispetto a quelli tradizionalmente assicurati e tutelati dal fondo patrimoniale. Altro aspetto che sottolinea una differenza tra i due istituti è quello relativo ai beni che possono esserne rispettivamente oggetto: invero, premesso che entrambe le norme sembrano fare un elenco tassativo dei beni che possono essere oggetto della destinazione, l’art.167 c.c., oltre al riferimento ai beni immobili e ai beni mobili registrati,comuni ad entrambe le norme,fa anche riferimento ai titoli di credito.
Una differenza più sostanziale attiene, invece, alla disciplina predisposta dal legislatore in ordine all’opponibilità del vincolo di destinazione nei confronti dei terzi creditori. Invero, se si esamina l’art. 170 c.c. (“l’esecuzione sui beni e sui frutti non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei alla famiglia”) si nota che la norma sottopone l’azione esecutiva ad un requisito ostativo di carattere soggettivo e cioè la conoscenza da parte del creditore della estraneità del debito dagli scopi della famiglia e cioè della costituzione del fondo.
Tale requisito, pare non sussistere nella norma di cui all’art. 2645 ter c.c. che fa invece riferimento solo a requisiti oggettivi, per loro natura più facilmente provabili. Inoltre si è evidenziato che mentre l’art. 2645 ter c.c. precisa i casi in cui l’esecuzione “… può aver luogo …” sui beni destinati, l’art. 167 c.c., invece, fa riferimento ai casi in cui “… non può aver luogo …”, con ciò espressamente disponendo diversi oneri probatori che si risolvono, di fatto, in una maggiore separatezza dei beni destinati ex art. 2645 ter c.c., con conseguenti indubbi effetti positivi per la realizzazione dello scopo, da qui la preferenza che potrebbe accordarsi alla destinazione prevista dalla novella rispetto a quella tradizionale del fondo patrimoniale.
Anche in tema di cause di cessazione del vincolo, si riscontrano differenze di non poco rilievo che potrebbero determinare un uso più ricorrente di un istituto rispetto all’altro.
Invero, il presupposto per il mantenimento del fondo patrimoniale è la permanenza del rapporto di coniugio o, in caso di cessazione, l’esistenza dei figli minori ed il raggiungimento della loro maggiore età. La novella di cui all’art. 2645 ter c.c., oltre il termine temporale di 90 anni e oltre il termine della vita del beneficiario, non prevede alcunché al riguardo, tanto che può ritenersi che il vincolo destinatorio possa durare anche oltre la cessazione del rapporto di coniugio e quindi anche per la famiglia cd. sciolta, qualora vi sia al riguardo volontà del disponente e non vi siano nell’atto di costituzione volontà contrarie.
Da ciò la maggiore flessibilità dell’istituto che non rimarrebbe vincolato alla sussistenza del vincolo di coniugio, onde la possibilità di operare in più variegate situazioni per la realizzazione di particolari interessi, in favore della famiglia e dei familiari, meritevoli per ciò stesso di tutela nell’ambito, ovviamente, dei principi generali del diritto e dei principi inderogabili previsti dal diritto di famiglia.
Viste le caratteristiche precisate, va riconosciuto che la novella di cui all’art. 2645 ter c.c. può trovare piena espansione nell’ambito della tutela della famiglia intesa in senso lato e a prescindere dalle varie vicissitudini che i vincoli familiari possono nel tempo subire.
Sicché è prevedibile un uso sempre più frequente dell’istituto in tale ambito. In senso negativo depone la considerazione che il regime del fondo patrimoniale è regolato da norme in larga parte inderogabili. Pertanto vincolare determinati beni per la stessa finalità del fondo patrimoniale, ossia per destinarli genericamente ai bisogni della famiglia, vuol dire porre in essere un negozio avente la stesa causa del fondo patrimoniale ma lesivo degli interessi protetti dalle norme inderogabili che governano il regime patrimoniale tipico.
2.1 Segue: Fondo patrimoniale e trust
Nel suo modello ricorrente il trust si configura come l’alienazione di un bene da parte di un disponente (il settlor) ad un fiduciario (il trustee), che si obbliga a gestirlo in favore di un determinato interessato o categorie di interessati.
Dall’entrata in vigore nell’anno 1992 della Convenzione dell’Aja dell’01/07/1985, l’istituto del trust è sempre più spesso utilizzato in sostituzione di altri istituti già presenti nel nostro sistema giuridico, rispetto ai quali meglio si presta per la risoluzione di alcune problematiche quale, per esempio, la segregazione dei patrimoni familiari.
E’ così per il fondo patrimoniale, a proposito del quale si parla di patrimonio separato inteso quale distinta entità unitaria avente una specifica destinazione per una determinata finalità che fa sì che esso non possa essere utilizzato a fini diversi dalla destinazione unitaria stessa.
La separazione del patrimonio presuppone, pertanto, una amministrazione separata, con conseguente limitazione di responsabilità dei beni che fanno parte del patrimonio separato, i quali sono destinati esclusivamente alla soddisfazione di obbligazioni strettamente collegate alla specifica destinazione con la conseguenza che una particolare garanzia viene riconosciuta ad una particolare categoria di creditori. Rispetto al fondo patrimoniale, il trust presenta numerose analogie ma anche profonde differenze.
Tra gli aspetti che maggiormente differenziano i due istituti, il più significativo è il fatto che il fondo patrimoniale presuppone per la propria istituzione l’esistenza di una famiglia legittima, condizione che non è invece prevista per la creazione di un trust. Il fondo patrimoniale infatti può essere costituito esclusivamente per fare fronte ai bisogni della famiglia legittima; può anche essere costituito prima del matrimonio, ma la sua efficacia è comunque subordinata alla successiva celebrazione del matrimonio stesso.
Il trust al contrario può essere utilizzato per le esigenze più diverse: in particolare per provvedere ai bisogni di una famiglia di fatto, oppure da un soggetto legato da matrimonio legittimo che voglia provvedere anche alle esigenze di un’eventuale figlio naturale.
Altra circostanza che differenzia profondamente i due istituti è quella relativa alla durata: il fondo patrimoniale è infatti per natura caratterizzato dalla temporaneità in quanto non può prescindere dal’esistenza del vincolo coniugale, mentre il trust è insensibile, nel suo periodo di durata, alle vicende personali dei familiari del disponente, a meno che siano state espressamente previste delle clausole al riguardo.
Rimane da chiarire se il trust possa essere utilizzato con i medesimi effetti del fondo patrimoniale. Non sembra infatti che la trascrizione dell’atto di alienazione immobiliare possa rendere opponibile ai terzi il rapporto obbligatorio intercorrente tra le parti e sottrarre per ciò stesso il bene alla garanzia patrimoniale dei creditori relativamente ad obbligazione assunte per bisogni estranei alla finalità fiduciaria.
Conclusioni Il compito del Giurista è sempre stato e rimarrà sempre quello di dare piena attuazione ai diritti e alle opportunità stabiliti dal Legislatore, illuminando il testo della legge con interpretazioni il più possibili coerenti con il dettato normativo e la ratio degli istituti.
Il fondo patrimoniale, pur non rappresentando una novità nel panorama legislativo italiano, ha avuto una notevole diffusione solo negli ultimi tempi, essendo stato fortemente rivalutato come strumento di protezione della famiglia. Nell’intenzione del legislatore, il fondo era finalizzato a far fronte ai bisogni della famiglia, rimanendo, dopo l’abolizione della dote e insieme all’usufrutto legale dei genitori sui beni dei figli minorenni, l’unico istituto finalizzato a tale scopo. Tale istituto rappresenta una valida soluzione alle esigenze di tutela del patrimonio personale e della famiglia soprattutto per talune categorie professionali particolarmente esposte ai rischi derivanti dall’attività lavorativa, quali imprenditori, amministratori, dirigenti e professionisti.
Tuttavia, il crescente ricorso a tale strumento è spesso legato al perseguimento di finalità ben lontane dalla ratio ispiratrice dell’istituto. Esso, infatti è spesso utilizzato per resistere, talvolta anche fraudolentemente, all’azione dei creditori, compresa l’Amministrazione finanziaria, piuttosto che per garantire il mantenimento, l’assistenza ed il soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
Ad arginare tale fenomeno ha contribuito notevolmente l’opera dei giudici di legittimità, tesa a stroncare il tentativo dei coniugi di sottrarre il proprio patrimonio alla garanzia patrimoniale generica prevista dall’art. 2740 c.c. attraverso il riconoscimento di una serie di rimedi a tutela dei creditori.
Contro un uso distorto del fondo patrimoniale è stata riconosciuta, innanzitutto, l’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria, ai sensi dell’art. 2901c.c.
I giudici di legittimità, infatti, hanno ritenuto che la costituzione del fondo possa essere dichiarata inefficace nei confronti dei creditori esercitando l’azione ex art. 2901 c.c., quale mezzo di tutela del creditore rispetto agli atti del debitore di disposizione del proprio patrimonio. Oltre al rimedio della revocatoria ordinaria, sia la dottrina che la giurisprudenza hanno ritenuto possibile ricorrere ad altri strumenti che l’ordinamento prevede a tale specifico fine, ovvero all’azione per simulazione (ex artt. 1414 ss. c.c.) e all’actio nullitatis, ove ne ricorrano i presupposti.
E’stata definitivamente chiarita una questione notevolmente dibattuta in passato, ovvero quella relativa alla revocabilità dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale a seguito del fallimento del coniuge.
Al riguardo la Suprema Corte ha ritenuto che l’atto di costituzione del fondo patrimoniale resti insensibile alla dichiarazione di fallimento, ma ha ammesso l’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare ex art. 64 L.F. da parte del curatore del fallimento.
E’da rilevare, inoltre, che l’esperienza ha dimostrato che non sempre lo strumento del fondo patrimoniale è in grado di soddisfare gli specifici bisogni di vincolo, tutela e stabilità che un’effettiva tutela degli interessi della famiglia richiede. L’istituto in esame presenta, infatti, dei limiti riguardanti l’ambito oggettivo, l’amministrazione ed il controllo dei beni, nonché la tutela dei soggetti beneficiari e la durata del vincolo.
Difatti, con specifico riferimento all’ambito oggettivo, si è visto che l’art. 167 c.c. contiene un’elencazione tassativa dei beni che possono essere destinati al fondo patrimoniale, ovvero beni immobili, beni mobili iscritti in pubblici registri e titoli di credito nominativi. Si presentano, inoltre, come punti di debolezza del fondo patrimoniale la discrezionalità consentita ai coniugi nelle decisioni riguardanti l’amministrazione e la disposizione dei beni costituenti il fondo; l’inesistenza di una norma che preveda un obbligo di reimpiego; l’inesistenza di un rimedio certo applicabile nella ipotesi di cattiva amministrazione.
Inoltre, il fondo patrimoniale non prevede “beneficiari” in senso tecnico, pertanto i soggetti a cui favore è stato istituito il fondo, ad esempio i figli, non sono legittimati ad agire nei confronti dei genitori che destinino i frutti dei beni costituiti a finalità non coincidenti con i bisogni della famiglia.
Ulteriore limite è poi la temporaneità della durata in quanto, presupponendo l’esistenza del vincolo coniugale, esso è destinato a cessare con il conseguimento della maggiore età del figlio più giovane. E’ prevista, infine, la presenza della famiglia legittima quale indefettibile presupposto per la sua stessa esistenza. Di conseguenza, tale istituto non può essere utilizzato da persone nubili, da conviventi more uxorio e da famiglie di fatto.
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