Fare un secondo lavoro durante l’assenza per malattia è lecito, purché questo non pregiudichi la pronta guarigione del lavoratore e non ci sia alcuna finzione sulla patologia.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 21667/2017, accogliendo il ricorso di un dipendente di una ditta di autotreni, licenziato per aver lavorato durante l’assenza per malattia, nel negozio del figlio.
Secondo la Suprema Corte, l’autista, in convalescenza per un infortunio a una spalla e a un polso, aiutando il figlio nel suo esercizio commerciale non avrebbe violato i doveri di correttezza e buona fede né gli obblighi di diligenza e fedeltà.
L'attività svolta, infatti, poteva essere astrattamente riconducibile a una prestazione lavorativa, tuttavia non era idonea a pregiudicare la guarigione del lavoratore, né tanto meno ad avvalorare l'ipotesi di inesistenza della malattia.
Così è stato ritenuto illegittimo il licenziamento del dipendente della ditta di autotreni, anche in base alla documentazione presentata a sua difesa e alle prove testimoniali che hanno dimostrato come non ci fosse stata da parte dell’uomo nessuna simulazione della malattia diagnosticata dall'Inail.
L’uomo aveva di certo aiutato il figlio e di fatto era impegnato in un secondo lavoro, ma, come avevano già giudicato i giudici d’Appello, non avrebbe potuto svolgere la sua principale attività, alla guida di un camion con l'obbligo di scarico delle merci trasportate.
Uno stato, quello della contusione alla spalla e al polso, incompatibile con lo stato di malattia diagnosticato.
E comunque, il lavoro nel negozio del figlio non arrecava alcun pregiudizio alla guarigione dell’uomo.
Chiamata a valutare l’illegittimità del licenziamento, la Corte di Cassazione ha richiamato il principio secondo cui “lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolente simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore”.
La Suprema Corte ha, dunque, dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore.
I giudici hanno anche ricordato che le attività extralavorative svolte dal lavoratore durante il periodo di assenza per malattia rappresentano un illecito disciplinare solo se provocano un'effettiva impossibilità temporanea di ripresa del lavoro o mettono in pericolo quest'ultima secondo una valutazione ex ante di idoneità, da rapportare al caso concreto.
Dunque il dipendente in malattia può uscire di casa fuori dagli orari di reperibilità e, in tale periodo, svolgere attività per conto di altri soggetti che non siano in diretta concorrenza con il suo datore di lavoro.
Nello stesso tempo il lavoratore può compiere solo quelle mansioni non incompatibili con la malattia e che, quindi, non ne rallentano la ripresa.