La responsabilità del sanitario rappresenta storicamente una delle più controverse questioni in tema di responsabilità civile e penale, passando per la sua diversa qualificazione il bilanciamento tra la tutela della salute e la c.d. medicina difensiva, quale species della più ampia libertà di autodeterminazione del medico.
Gli interessi sottesi alla materia ben spiegano, allora, l’alternanza di impostazioni giurisprudenziali e il più recente susseguirsi di interventi normativi coi quali il legislatore ha inteso riordinare la materia, con esiti, tuttavia, non sempre rispondenti alle intenzioni.
Ad oggi, la materia è disciplinata dalla Legge Gelli (n. 24 dell’8 marzo 2017) che all’art. 7 ha ridisegnato la disciplina della responsabilità civile della struttura sanitaria e dell’esercente la professione sanitaria, prevedendo al primo comma che “la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose”.
Nell’imperversare dell'emergenza sanitaria da Covid-19 che sta interessando l’intero Paese e che sta vendendo impegnate tutte le risorse sanitarie disponibili, sono state emanate diverse norme di natura emergenziale che dovranno essere convertite in legge secondo l’iter parlamentare, tra le quali rientra il decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”. In sede di conversione di questo decreto è stato proposto un emendamento, volto a introdurre una limitazione di responsabilità per gli esercenti la professione sanitaria.
Il 1 aprile 2017 è entrata in vigore la legge n. 24/2017 recante "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie" con l’intento di sistematizzare la disciplina della responsabilità medica. L’idea era quello di chiarire i numerosi dubbi interpretativi aperti dalla precedente normativa di settore ( l. 189/2012 di conversione del c.d. Decreto Balduzzi): la prima che tentava, senza raggiungere i risultati attesi, di disciplinare espressamente il tema della responsabilità medica, emancipandola dalle regole generali previste dal codice civile. L’art. 7 della legge “Gelli” ha istituito quello che è stato definito il “doppio binario” della responsabilità medica: mentre la struttura sanitaria risponde per le condotte, dolose o colpose, degli esercenti la professione sanitaria, siano o meno scelti dal paziente, secondo i crismi della responsabilità contrattuale; l’operatore sanitario che non sia stato scelto dal paziente risponderà, invece, “del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile”.
In questo modo, la legge Gelli segnava un cambio di passo rispetto allo sforzo ermeneutico che aveva coinvolto la natura della responsabilità medica e provava a rispondere al fenomeno della c.d. “medicina difensiva” ponendo, attraverso il ricorso allo schema della responsabilità extracontrattuale, l’onere della prova in capo al danneggiato e non a carico del debitore-danneggiante, contenendo la prescrizione dell’azione risarcitoria nel termine quinquennale e liberando la quantificazione del danno risarcibile dalla prevedibilità tipica della responsabilità contrattuale.
Stando così le cose, la difficoltà a carico del danneggiato di dover provare tutto lo scheletro dell’art. 2043 c.c. ai fini risarcitori limitava l’esposizione del medico, inducendo il soggetto danneggiato a rivalersi direttamente nei confronti della Struttura sanitaria per il risarcimento dei danni da “malasanità”.
Neppure la disciplina penale della responsabilità medica è stata esente da rimaneggiamenti.
La legge Gelli ha introdotto nel codice penale l’art. 590-sexies, rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario” che disciplina i casi in cui le condotte degli agli artt. 589 e 590 c.p. siano commessi nell’esercizio della professione sanitaria, prevedendo il rinvio quoadpoenam alle forbici edittali previsti dai summenzionati articoli del codice penale.
Al secondo comma, la novella introduce poi una causa di non punibilità per il medico, col prevedere che “Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.
Non risponderà, quindi, il medico che per imperizia abbia provocato la morte del paziente o lesioni personali allo stesso, quando nel suo operato si sia attenuto alle c.d. linee guida accreditate adeguate al caso di specie.
La Corte di Cassazione (pronuncia n. 8770 del 2018) ha chiarito come l’elemento dirimente ai fini della validità della causa di non punibilità risieda proprio nell’adeguatezza delle linee guida adottate nel caso concreto, portando la condotta del medico all’interno dell’area della colpa lieve, concretizzatasi nella fase di attuazione delle raccomandazioni operative previste nelle stesse.
Fuori dall’area della non punibilità restano, oltre alle condotte caratterizzatesi per c.d. colpa grave, anche quelle dell’operatore sanitario che versi in colpa, ancorchè lieve, dovuta ad imperizia, ma questa volta inerente una casistica priva di linee guida o in ipotesi di inesatta individuazione delle linee guida adeguate al caso di specie. Restano penalmente rilevanti, inoltre, anche le condotte caratterizzate da colpa lieve, ma dovute a negligenza o imprudenza.
La legge “Gelli”, attualmente in vigore, se dal profilo civile ha sistematizzato il doppio binario della responsabilità tra Operatore Sanitario e Struttura Ospedaliera distinguendo le due diverse matrici di responsabilità, e quindi le relative applicazioni in punto di onere probatorio, quantizzazione del danno e regime di prescrizione, ha reso meno favorevole la disciplina penalistica per il medico di quanto non fosse la precedente prevista dall’art. 3 d.l. “Balduzzi”, abrogato dalla legge Gelli, in cui erano esenti da responsabilità le condotte del sanitario che si fosse attenuto alle linee guida o alle buone pratiche accreditate e quindi fosse risultato negligente o imprudente con configurazione di colpa lieve.
Nell’attuale situazione di gestione dell’emergenza da Coronavirus non è infrequente venire a conoscenza di contagi e, in qualche caso purtroppo, di morti tra il personale sanitario così come si è assistito ad una vera e propria “chiamata alle armi” di medici e personale sanitario indipendentemente dalla specializzazione posseduta.
Da questi accadimenti è evidente come il personale sanitario, tutto, sia irrimediabilmente esposto a incorrere in eventuali future azioni di responsabilità. Inoltre, nella situazione emergenziale in corso, non troverebbe applicazione l’esclusione della punibilità prevista da Gelli laddove siano rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida o buone pratiche clinico assistenziali, attesa l’assenza delle stesse a motivo delle tempistiche di comparsa e diffusione del virus: il personale sanitario si trova oggi a dover operare modificando di giorno in giorno gli algoritmi diagnostici e terapeutici alla luce di elementi clinico-scientifici acquisiti sul campo.
Così, come si diceva in premessa, è stato proposto un emendamento limitativo della responsabilità degli operatori sanitari che ha lo scopo, in deroga a quanto previsto dalla legge Gelli, di contenere i casi di responsabilità degli operatori del servizio sanitario durante l’emergenza epidemiologica.
In particolare, il testo della modifica contiene un’esemplificazione dei casi nei quali un evento dannoso possa effettivamente dare luogo ad una responsabilità civile o per danno erariale: si fa riferimento alle condotte intenzionalmente finalizzate alla lesione della persona; alle condotte connotate da colpa grave ravvisabile nella macroscopica e ingiustificata violazione dei principi basilari che regolano la professione sanitaria o dei protocolli e programmi emergenziali predisposti ad hoc per la gestione della situazione emergenziale; e, infine, alle condotte amministrative o di gestione connotate dal dolo del funzionario o dell’agente che abbia agito in violazione dei principi basilari delle professioni del Servizio sanitario nazionale.
Nondimeno, non possono tacersi neppure i veri e proprio dilemmi etici con cui sono chiamati a misurarsi gli operatori sanitari nello sforzo di bilanciamento tra le esigenze cliniche e le concrete risorse umane e materiali disponibili.
Ha infatti sollevato molto clamore il documento recentemente diffuso dalla società italiana di analgesia rianimazione e terapia intensiva (SIAARTI) che definisce criteri di scelta per l’ammissione dei pazienti alle terapie intensive, a fronte del quale la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCEO) ha richiamato i medici ad attenersi ai principi costituzionali e deontologici.
L’emendamento sottende la ratio di contenere in qualche modo eventuali contenziosi che potranno svilupparsi una volta che lo stato di emergenza possa dirsi rientrato e che vengano a coinvolgere tanto i singoli operatori sanitari quanto le strutture sanitarie nei confronti dei pazienti, ma anche nell’immediato, di non impegnare i sanitari in procedimenti giudiziari, interferendo con la gia’ gravosa attività assistenziale, rendendo cosi prioritarie le esigenze di salute pubblica.
In ultimo, non vanno sottovalutate le ripercussioni dell’emendamento sui sanitari, sempre più numerosi, che hanno contratto in prima persona l’infezione (i numeri parlano di circa 70 deceduti e oltre 10.000 contagiati).
Questi medici, infermieri e operatori della sanità, o nei casi sfortunati i loro eredi, potranno in futuro avanzare pretese risarcitorie nei confronti delle strutture sanitarie per cui hanno prestato servizio.
È tristemente nota, ad esempio, la gravissima carenza di dpi sia nelle strutture ospedaliere che nella disponibilità di chi si trova ad operare sul territorio.
L’aver esposto gli operatori a un aumentato rischio di infezione per non averli dotati dei necessari dispositivi di protezione, seppur in un contesto di emergenza globale, potrà configurare una colpa grave?